ROMA – Eugenio Scalfari ha compiuto 90 anni il 6 aprile 2014. Eugenio Scalfari è il più grande giornalista italiano e uno dei più grandi del mondo. Il giornale che ha fondato, Repubblica, continua ben oltre la fine della sua direzione, è il più letto d’Italia sia nella versione su carta sia in quella online, e resta profittevole nonostante la crisi. I grandi italiani, come Alfredo Frassati (Stampa) e Luigi Albertini (Corriere della Sera) costruirono e innovarono su giornali esistenti; il Giornale, che Indro Montanelli fondò nello stesso periodo di Repubblica, non ha mai superato un terzo delle vendite di Repubblica e ha sempre quadrato i conti grazie alla generosità dei Boroli (De Agostini) e soprattutto di Berlusconi.
Ho vissuto e lavorato accanto a uno dei grandi giornalisti italiani. Ho scoperto i suoi difetti e riconosco ancora oggi le sue forti capacità. Compiere novant’anni e rimanere attivo, scrivere, ingaggiare polemiche, duellare con i nuovi potenti, non è affare di tutti. E benché le nostre strade siano ormai lontane, confesso che la figura di Eugenio da vecchio mi commuove, poiché contiene una parte di me stesso.
Parecchi mesi fa, mi è capitato di vederlo a Roma. Stavo avviandomi verso Montecitorio quando ho notato Eugenio diretto a casa. Mi è parso un patriarca, la figura snella e ben eretta, l’aria di chi è sicuro del proprio carisma. Camminava a passi lenti, impugnando un bastone prezioso più simile a uno scettro che a un sostegno. Ho notato la sua barba, candida e ben curata. In quel momento mi sono rammentato che a «Repubblica» lo chiamavamo Barbapapà, un soprannome dettato da molta ammirazione.
Senza Barbapapà, e senza Caracciolo scomparso nel dicembre 2008, «Repubblica» non sarebbe mai nata. E la politica italiana avrebbe avuto un corso diverso. Scalfari l’ha raccontata, giudicata e influenzata come nessun altro giornalista ha fatto dal 1976 a oggi. Per vent’anni da direttore e in seguito da editorialista, mentore, polemista.
Nel nostro mestiere, resistere all’avanzata del tempo conservando la capacità di parlare a un pubblico vasto di lettori, è una qualità che ben pochi possiedono. Ecco la dote numero uno di Eugenio: non rifugiarsi nella vita privata, ma rimanere in piedi di fronte ad amici e avversari, senza timore di nessuno. Scalfari ci è riuscito perché continua a essere un primo della classe con un’autostima enorme, convinto di avere sempre ragione, al punto di non sopportare chi si azzarda a mettere in dubbio la sua assoluta perspicacia. E quando commette un errore e sbaglia una previsione, come accade a chiunque, rimuove tutto senza spiegare nulla.
La stessa marmorea noncuranza mostra nel piegare i fatti, e la loro memoria, a vantaggio di se stesso. Sino al punto di alterare la verità. Gli capita di farlo spesso, confidando nell’ignoranza di chi lo ascolta quando lo vede in tivù o legge il suo vangelo domenicale su «Repubblica». Anche Scalfari si contraddice. Su questo versante, le testate che lo avversano si divertono a prenderlo in castagna. Ma lui considera la critiche un omaggio alla propria fama e ai suoi tanti successi.
Il primo è di aver creato dal nulla, con Caracciolo, un giornale leader come «Repubblica». E di essere riuscito a farlo diventare la potenza di oggi. Un’impresa titanica, mai accaduta nell’Italia dal 1945 in poi. Scalfari poi voleva un quotidiano di sinistra ed è riuscito a costruirlo e ad affermarlo, distruggendo i fogli compagni di strada dei comunisti.
Barbapapà voleva un giornale ibrido. Per metà aristocratico e per metà popolare, in grado di ospitare firme diverse e spesso in contrasto tra loro. Scalfari ci è riuscito mettendo in pratica la teoria del libertino, capace di contraddirsi, di mutare opinione. Quel prodigio oggi è finito, annientato dalla filosofia del giornale caserma che pervade la «Repubblica» di questi ultimi anni. Una fortezza inchiodata a un pensiero unico. Dove non vengono ammessi dubbi, dissensi, deviazioni. Ecco un errore autoritario al quale Scalfari non si è opposto, anzi ha contribuito a provocare. In base al principio che le grandi testate sono tali proprio perché parteggiano per una causa politica.
La domanda è se nella temperie attuale, quando nessuno è più certo di nulla, un giornale-caserma sia utile ai lettori che lo acquistano. Se osserviamo la crisi profonda che investe anche «Repubblica», la risposta è no. Ma questo è un problema del direttore di oggi e dell’editore. Non di Scalfari.
Barbapapà non si pone questo interrogativo. E non si macera nell’incertezza se deve spiegare chi siano i lettori di «Repubblica». Per lui sono una comunità di militanti, cresciuta lottando contro i nemici che, via via, Scalfari indicava: per primo Bettino Craxi e infine Silvio Berlusconi. Nel giugno 2012, alla richiesta di definire le diverse generazioni dei suoi tifosi, ha offerto una risposta secca: «Sono la sinistra italiana di oggi».