Spending review all’italiana: 7 anni, 4 commissari. Marco Palombi, Fatto Quotidiano

Carlo Cottarelli
Carlo Cottarelli

ROMA – “Sette anni, quattro commissari, una Commissione, un libro verde firmato da un ministro, zero risultati – scrive Marco Palombi del Fatto Quotidiano – Questa, in cifre, è la spending review italiana. Se si passa, invece, dai numeri alle parole si scopre che la “revisione della spesa” è un equivoco che dura dal 2007: chiunque, infatti, immagina che spending review significhi un’analisi della situazione per migliorare le performance del settore pubblico e, eventualmente, risparmiare qualcosa”.

L’articolo completo:

Falso: spending review da noi si traduce tagli. In quest’ultima versione – quella del licenziando Cottarelli – significa che la spesa pubblica italiana deve dimagrire di 16 miliardi nel 2015 e 32 nel 2016. La cifra è già in larga parte incorporata nei tendenziali di bilancio: se non ci si arriva con le buone, si procederà comunque con le forbici. Una storia sbagliata (e fallimentare) L’espressione divenne di moda nel 2006. Tommaso Padoa Schioppa, all’epoca ministro dell’Economia di Romano Prodi, la importò dall’Inghilterra dopo un vertice col suo omologo Gordon Brown. Con la Finanziaria 2007 venne istituita una “Commissione tecnica per la Finanza pubblica” che elaborò il famoso “Libro Verde”: in sostanza il bilancio dello Stato veniva per la prima volta strutturato per missioni e obiettivi, mentre i problemi più rilevanti furono indicati nella spesa pensionistica e in quella per stipendi della P. A. Solo che il successivo chirurgico lavoro su quale capitolo tagliare e quale aumentare non si fece più: a febbraio 2008 Prodi fu mandato a casa. Giulio Tremonti, nuovo ministro, decise di sciogliere la “Commissione tecnica” e procedere coi “tagli lineari”. Il governo di Mario Monti, che all’inizio tenne pure l’interim all’Economia, è un caso a parte.

I suoi primi interventi dimostrano che i tecnici avevano letto con attenzione il “Libro Verde” di Padoa Schioppa: gli interventi più pesanti – oltre alle tasse – furono infatti su pensioni e stipendi degli statali. Un premier anglofono come Monti, però, non poteva non rilanciare pure la spending review: all’inizio del 2012 delegò al compito un suo ministro, Piero Giarda, esperto della materia. Quest’ultimo predispose uno studio e indicò in 100 miliardi la “spesa aggredibile nel breve periodo” con un orizzonte di 5 miliardi di risparmi. Siamo alla fine di aprile del 2012 quando, a sorpresa, Piero Giarda viene sostituito: il nuovo commissario è EnricoBondi, l’uomo che aveva salvato Parmalat con una cura da cavallo di risparmi. Bondi promette 4, 2 miliardi di tagli subito e oltre dieci nel 2013, ma nella pratica – il decreto Spending review di Monti – siamo ai tagli lineari. Il 2012 passa senza ulteriori sussulti e, appena arrivato l’anno nuovo, Bondi si dimette: deve vagliare le candidature di Scelta Civica alle elezioni. Dispersi sul fronte russo pure i suoi colleghi: Giuliano Amato, che doveva occuparsi dei costi della politica, produce un topolino sui permessi sindacali e i costi dei Caf; Francesco Giavazzi, chiamato a sfrondare i sussidi alle imprese, propone un piano largamente irrealizzabile da 10 miliardi che si basava, in sostanza, sul fallimento di molte aziende. Quando Bondi si fa da parte, arriva il terzo commissario, quello di cui nessuno si ricorda: l’allora Ragioniere generale Mario Canzio. Dura da gennaio ad aprile, quando s’insedia il governo di Enrico Letta che ha un asso nella manica: Carlo Cottarelli, manager del Fmi, s’insedia ad ottobre 2013 annunciando sfracelli, cioè i famosi 32 miliardi. Da quella data sono passati solo 9 mesi, ma non c’è stato alcun parto: Matteo Renzi, nuovo premier, ha cercato di portare il commissario sotto il suo controllo sottraendolo al Tesoro: Cottarelli, però, finora s’è rifiutato di trasferirsi. I due non si sono mai presi e il motivo è semplice: il commissario, regnante Letta, era il vero premier, con Renzi si trova ad essere un funzionario mal tollerato. Non solo: a palazzo Chigi si lamentano che Cottarelli non gli abbia nemmeno ancora portato la lista dei tagli realizzabili. L’ossessione della spesa pubblica italiana La ragione di questa sequela di fallimenti è dunque l’ideologia della spending review all’italiana: non spendere meglio, ma tagliare la spesa pubblica per mettere a posto il bilancio. Così, però, non si ottengono risultati e si finisce per deprimere l’economia. D’altronde, la spesa pubblica al netto degli interessi sul debito è più bassa della media: secondo Eurostat ammonta al 45, 5 % del Pil (in recessione, peraltro) contro il 46, 3 della Ue a 27 e il 46, 9 % dell’Eurozona. L’Italia è anche uno dei pochi paesi europei ad avere un avanzo primario, vale a dire che lo Stato spende meno per il suo funzionamento di quanto raccoglie con le tasse: di fatto, quindi, sta sottraendo risorse all’economia reale per passarle alla rendita (paghiamo circa 40 miliardi di interessi sul debito più della media Ue). Per di più la spesa corrente italiana, in questi anni, è aumentata sostanzialmente per l’esplosione degli ammortizzatori sociali: nel 2012 costavano 30 miliardi, cioè l’ 80 % in più del 2007. Per questo ci si appresta ad abolire la Cig in deroga: più che il Jobs Act è un altro pezzo di spending review all’italiana.

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