Tranfa, prima a Lourdes, poi dimissioni. Berlusconi non diverso da un marocchino

Dimissioni Tranfa. Berlusconi non diverso da un marocchino. Spirito di Lourdes...
Enrico Tranfa. Prima a Lourdes, poi le dimissioni: Berlusconi non doveva essere assolto

MILANO – Le dimissioni del giudice della Corte d’Appello di Milano Enrico Tranfa hanno provocato scalpore, commenti e aspre prese di posizione. Sono divisi i lettori di Blitz, sono divisi i giornali e i politici.

Enrico Tranfa è stato presidente della Corte d’Appello di Milano che ha firmato l’assoluzione di Berlusconi nel processo Ruby, messo in minoranza dagli altri due giudici che costituivano il collegio. Dopo la pubblicazione delle motivazioni della sentenza si è dimesso, come hanno rivelato Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella sul Corriere della Sera.

Lo hanno criticato in molti, riferisce Piero Colaprico su Repubblica. Tra questi, il suo ormai ex capo, Giovanni Canzio, presidente della Corte d’appello” e Armando Spataro, procuratore capo di Torino, che per molti anni ha lavorato nello stesso Palazzo di giustizia in cui aveva l’ufficio Tranfa.

Canzio ha diffuso una nota per rilevare che le dimissioni di Tranfa

“non appaiono coerenti con le regole ordinamentali e deontologiche se dettate dal motivo — non esplicitato direttamente dall’interessato, ma riferito dai vari organi di stampa — di segnare il personale dissenso rispetto alla sentenza assolutoria di appello nel procedimento a carico di Silvio Berlusconi “.

Una bacchettata in piena regola, nota Piero Colaprico, colto impreparato e all’oscuro di tutto dalla mossa del giudice Tranfa:

“A Canzio non resta che difendere i due giudici a latere, ricordando che le regole «impongono l’assoluto riserbo dei giudici sulle dinamiche, fisiologiche, della formazione della decisione nella camera di consiglio dell’organo collegiale. E ciò vale a maggiore ragione quando il processo sia stato celebrato, come nel caso concreto, in un clima di esemplare correttezza”.
Anche Armando Spataro esprime totale solidarietà ai giudici a latere della sentenza pro-Berlusconi. Lo fa in una mailing list del gruppo dei magistrati di “Area”, vietando esplicitamente la diffusione della sua mail che però gira ugualmente e viene divulgata:

“Spataro ricorda un punto cardine del diritto: quando si dice che le sentenze si criticano, ma si rispettano, l’obbligo spetta a chiunque. Dal condannato al pubblico ministero, compreso il giudice: chi fa parte di un collegio giudicante, a prescindere dal dissenso o meno, deve rispettarle. Invece, dice Spataro, la lettura dei giornali che parlano delle divisioni tra il presidente della seconda sezione penale della Corte d’appello Tranfa e i due magistrati a latere, sta alimentando illazioni e sospetti. E quindi — così dice Spataro — se lui facesse parte del collegio, chiederebbe a Tranfa, che s’è dimesso dalla magistratura, di spiegare a voce alta le ragioni del suo dissenso. Il procuratore di Torino aggiunge che non conosce Alberto Puccinelli e ha qualche volta litigato con Concetta Locurto, ma manda loro il suo «abbraccio sincero». Perché sono giudici ed erano liberi di decidere come volevano, trattando tutti alla stessa maniera, puntualizza Spataro”.

Quello di Enrico Tranfa deve essere però essere stato un percorso intimo tormentato e ammantato di fede religiosa e quasi di misticismo. Come racconta sempre Piero Colaprico, Prima di dimettersi da magistrato Enrico Tranfa è andato a Lourdes a cercare una risposta al suo dramma interiore:

“Un viaggio per cercare, attraverso la fede e la preghiera, il se stesso più profondo e «aiutarsi » a scegliere di fare, come dice lui alle persone che gli sono state più vicine, «la cosa giusta». Giusta: da quale punto di vista?.

“Non dal punto di vista dei propri vantaggi o svantaggi, questo pare evidente in chi conosce questo giudice tutto d’un pezzo che, quindici mesi prima della pensione, decide di lasciare la toga e di andarsene in pensione. E lo fa appena dopo il deposito delle motivazioni sul perché Silvio Berlusconi sia stato assolto dai reati di concussione e prostituzione minorile.
«La mia – confida Tranfa ai colleghi che conosce – è stata una decisione solitaria, maturata a lungo, meditata, che solo io potevo prendere, e senza chiedere consigli a nessuno. So che c’è chi mi avrebbe detto: “Stai attento alle conseguenze” e chi mi avrebbe chiesto: “Sei proprio sicuro?”. Chi avrebbe approvato e chi no. Ma nessuno è indispensabile e non ho bisogno di sentire gli altri quando devo sentirmi in pace con me stesso».
Questo «essere in pace con se stesso», nel cuore di un giudice di 69 anni, entrato in carriera nel 1975, e di un credente che stava nell’Azione cattolica, non può essere banalizzato o sottovalutato.

Tra i magistrati c’era chi si chiedeva: «Ma se era contrario, perché non ha inchiodato i due in camera di consiglio per giorni e giorni? Era il presidente, poteva dire: “Convincetemi” ». E chi storceva il viso: «Andarsene senza spiegare non è istituzionale».

Eppure, è quel «in pace con me stesso» che, senza spiegare nulla, si spiegano molte cose: «Non volevo e non voglio fare polemiche, non cercavo e non cerco popolarità. Anzi, vorrei proprio scomparire. Ho dato le dimissioni, punto. Ognuno pensi ciò che vuole. E comunque non intendo dire nulla, se non che non ho agito d’impulso», ripete agli amici.
Le dimissioni sono un gesto secco e netto in contrasto – Tranfa non l’ha smentito – con le motivazioni della sentenza. Il contrasto era nato durante le udienze e forse non era un caso che il procuratore generale Piero De Petris, quando parlava a braccio e chiedeva la conferma nel processo d’appello dei sette anni di carcere per Silvio Berlusconi, osservasse i giudici, uno per uno, esortandoli a «guardare tutti i tasselli » della vicenda.

Forse non era un caso che Tranfa, alla fine della requisitoria, apparisse provato e «tirato» in volto: per uno come lui, era molto significativo il comportamento dei poliziotti, comportamento corretto che cambia dopo la telefonata di Silvio Berlusconi. E da uomo di famiglia, trovava (e trova) sconcertante che una minorenne «Qui si dimentica che abbiamo a che fare con una minorenne», ripeteva Tranfa – fosse andata a finire proprio là dove un magistrato, Anna Maria Fiorillo, aveva ordinato che non andasse, e cioè nel bilocale ammezzato in periferia di una prostituta brasiliana.

«Non ci vuole una zingara per capire com’è andata quella notte in questura», sono le parole Tranfa ai suoi amici. Ma non l’hanno pensata come lui Concetta Lo Curto, giudice estensore della sentenza, e Alberto Puccinelli, consigliere.
Ora, per onore di verità, bisogna dire che il reato di concussione basato sulla telefonata ha spesso avuto visioni discordanti tra magistrati, avvocati, giornalisti. E se in primo grado è stata vista in pieno la «costrizione» subita dai poliziotti, in secondo grado ci può stare che possa esistere un’altra visione. Tranfa, però, appare granitico: «Ognuno può leggere le motivazioni e può trarre in ogni sede le sue conclusioni, quanto a me – ripete ai colleghi ho deciso di essere in pace con me stesso».
Gli altri due giudici, anche informalmente, non erano rintracciabili.

Vengono descritti «basiti», «costernati». Che ci fossero stati i contrasti nella decisione di assolvere l’imputato Berlusconi lo sapevano bene. Che il presidente non avesse digerito il modo in cui tutta la responsabilità venisse scaricata su Pietro Ostuni e sul suo presunto «timore reverenziale» era loro noto. Così come che per il presidente il comportamento dei poliziotti, nell’interrogatorio da parte di Ilda Boccassini e Antonio Sangermano, rivelasse poca collaborazione: quei «non ricordo», le menzogne, le spiegazioni poco logiche andavano pesati con enorme attenzione. Ed per chiunque conosca l’esperienza e la bravura di alcuni ispettori delle volanti è davvero difficile immaginare che non sapessero quello che stavano facendo con Ruby: ci sarebbero potuti arrivare osservando ebbene, è proprio così – solo le facce e gli atteggiamenti delle protagoniste della nottata. Tutto ciò bolliva dietro le quinte, in segreto, finché ieri è deflagrato con le inattese dimissioni.
Che Tranfa non ha comunicato a nessuno. Non alla presidente Livia Pomodoro. Non al procuratore capo Bruti Liberati. L’unico che lo sapeva, a tarda sera, era il presidente della corte d’appello, Giovanni Canzio. Tranfa voleva e vuole davvero «stare in pace» facendo «la cosa giusta»”.

Luigi Ferrarella, uno dei due autori dello scoop sul giudice Tranfa, ha raccontato così, il 18 ottobre 2014, il day after al Palazzo di Giustizia di Milano:

“Dai piani alti della Corte d’appello di Milano, nella tarda serata di giovedì, avevano provato a rivolgergli un ultimo pressante appello a ripensarci, o a prendersi almeno un altro po’ di tempo per riflettere: «Ci ho già riflettuto negli ultimi tre mesi», si erano però sentiti rispondere dal giudice Enrico Tranfa, con un riferimento cronologico (appunto i 90 giorni per il deposito della motivazione della sentenza del processo Ruby del 18 luglio scorso) che legava esplicitamente e inequivocabilmente la sue clamorose dimissioni dalla magistratura a un insanabile contrasto in camera di consiglio con gli altri due colleghi sull’assoluzione di Silvio Berlusconi, e sulle motivazioni di questo ribaltone rispetto alla condanna di primo grado a 7 anni per concussione e prostituzione minorile.
E del resto ieri qualcosa di analogo hanno sperimentato, se possibile ancora più nitidamente, almeno una mezza dozzina di magistrati milanesi che — per esprimere solidarietà e apprezzamento a Tranfa o invece per manifestargli incredulità e disappunto —, dopo aver letto la notizia delle dimissioni del presidente di quel collegio e dell’intera seconda sezione penale della Corte d’appello, l’hanno chiamato al telefono per capire che cosa lo avesse spinto a un gesto così dirompente da non avere precedenti nella storia giudiziaria italiana: «La mia coscienza. Non me la sento di giudicare domani un marocchino in un modo diverso da quanto fatto con Berlusconi», riferiscono che Tranfa abbia risposto loro.

Segno che il giudice, abbandonata la toga giovedì immediatamente dopo aver firmato le 330 pagine delle motivazioni della sentenza di assoluzione frutto della camera di consiglio del 18 luglio scorso, dopo 39 anni di servizio ha scelto di andare in pensione con 15 mesi di anticipo sul previsto come protesta per quella che, nella sua percezione, evidentemente sarebbe l’incompatibilità del metro di misura quotidiano rispetto allo standard probatorio adoperato per analizzare le prove a favore o contro l’ex presidente del Consiglio.
Alle agenzie di stampa e tv che gli domandavano delle dimissioni, Tranfa si è invece limitato a confermarle, ribadendo di non voler aggiungere altro se non il fatto che la sua sarebbe stata «una decisione molto meditata, perché in vita mia non ho fatto niente di impulso. Tutti sono utili, nessuno è indispensabile».
Sul caso, nel frattempo, monta già la contrapposta lettura politica: «Solidarietà e un profondo senso di vicinanza nei riguardi del giudice Tranfa che lascia la toga con un gesto fermo e dignitoso» vengono ad esempio espressi dalla vicepresidente del Partito democratico, l’onorevole Sandra Zampa (ex portavoce di Prodi), e dalla senatrice pd Donella Mattesini, per la quale «il nostro sistema giudiziario dimostra tutta la sua debolezza quando si tratta di garantire i diritti dei più indifesi, in questo caso minori vittime di reati sessuali».
Da Forza Italia rispondono l’onorevole Luca D’Alessandro («Uno così fazioso, da lasciare la toga per non essere riuscito a condannare Berlusconi in un processo farsa e guardone come il processo Ruby, non avrebbe mai dovuto fare il giudice e dovrebbe essere dimenticato»), e l’ex ministro della Giustizia, Nitto Palma, secondo il quale «il primo a non rispettare la sentenza è proprio il presidente di quel collegio che l’ha emessa: per certi versi mi ricorda il bambino padrone della palla, che se la portava via ogni qualvolta gli veniva negato un calcio di rigore».

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