Trieste, dialogo sul palco tra italiani e sloveni. Mauro Covacich, Corriere della Sera

di Redazione Blitz
Pubblicato il 17 Novembre 2014 - 14:23 OLTRE 6 MESI FA
Trieste, dialogo sul palco tra italiani e sloveni. Mauro Covacich, Corriere della Sera

Trieste, dialogo sul palco tra italiani e sloveni. Mauro Covacich, Corriere della Sera

ROMA – “A un certo punto succede questo – scrive Mauro Covacich del Corriere della Sera – sloveni e italiani si parlano ognuno nella propria lingua come se niente fosse. Attori che fino a un minuto prima dicevano le loro battute rivolti verso il pubblico, ora dialogano con naturalezza, e si capiscono”.

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Il passaggio avviene senza soluzione di continuità, quasi impercettibile, ma, dal momento in cui si compie, è difficile pensare ad altro. Molti dei triestini in platea non sono mai entrati nel teatro della Kulturni Dom, sono quelli che, come me, stanno seguendo la scena con un occhio ai sottotitoli.
L’effetto è ancora più straniante perché non viene giustificato, lascia credere l’incredibile e, al tempo stesso, mostra l’occasione perduta: quindi avremmo potuto fare così? Parlarci? Dialogare?
Trieste, una città in guerra è uno spettacolo concepito in occasione del centenario, ma di fatto, grazie all’intuizione del giovane regista Igor Pison, i due testi di Marko Sosi č e Carlo Tolazzi sono stati manipolati e fusi in una pièce sul linguaggio. A Trieste la Grande Guerra è stata solo l’esordio di un conflitto che le due comunità autoctone hanno condotto e, potremmo dire, interpretato per tutto il Novecento. L’italianizzazione coatta degli sloveni, le foibe titine, la divisione in zona A e zona B, le manifestazioni contro il bilinguismo, e sempre l’ombra della cortina di ferro alle spalle del Carso e la possibilità che la paranoia si trasformi in odio personale — possibilità la cui soluzione ottimale è stata una surreale convivenza tra estranei.
Poi però è caduto il Muro di Berlino — il vero anniversario che questo spettacolo sembra celebrare — ed è venuto meno anche il senso di usare le lingue come armi.
Pison è un triestino di trentadue anni, lui sì perfettamente bilingue, ma soprattutto è un triestino venuto dopo. Non ha particolari rancori e nessuno spirito di vendetta. Inoltre, grazie a una solida formazione tedesca, fa sentire il suo respiro internazionale (nell’adattamento dei testi compare anche la figura poco nostrana del «dramaturg» Eva Kraševec). Trasforma, ad esempio, i suoi limiti conoscitivi in risorse morali: come posso raccontare una guerra se non ne ho mai avuto esperienza? Pison mette in scena l’onestà intellettuale di un giovane regista, suo alter ego, che si tormenta per la propria inadeguatezza rispetto all’incarico affidatogli, circondato da attori che pure gli sono devoti, tutti pronti con la parte in mano, già in costume di scena. Evita la commemorazione retorica, a beneficio di un’anomala, imprevedibile seduta di autocoscienza. La guerra oggi è un’esperienza trasmessa da un video.
Uno schermo passante divide il palco in due profondità. Le immagini proiettate non ci impediscono di intravvedere dietro la tenda-schermo le scene provate davanti alla telecamera da cui quei filmati provengono. Gli attori passano in continuazione dal proscenio al retro, dal presente al passato, da ciò che sono, uomini e donne esitanti davanti a un ruolo troppo grande, a ciò che fingono di essere, reduci, disertori, vedove, giovani madri abbandonate. Se vuoi sapere chi sei, indossa i panni di un altro: il percorso introspettivo che va da Pirandello a Charlie Kaufmann.
Coprodotto dal Teatro Stabile Sloveno e dal Rossetti (dove lo spettacolo di sposterà a dicembre), il progetto nasce dalla Casa del Lavoratore Teatrale e rappresenta un piccolo passo coraggioso verso una Trieste non più autocelebrativa. Sono rose, e fioriranno.