Umberto Agnelli e i “16 mesi che diedero il via alla Fiat globale”: Sorgi, La Stampa

Umberto Agnelli
Umberto Agnelli

ROMA – “I sedici mesi che diedero il via alla Fiat globale”: Marcello Sorgi sulla Stampa ripercorre la storia di Umberto Agnelli “l’uomo che ha messo le basi del rilancio della Fiat”.

L’articolo completo:

La mattina del 24 gennaio 2003, il giorno in cui morì l’Avvocato, Umberto Agnelli, già alle 8, era il nuovo presidente della Fiat. La successione, avvenuta all’alba, era scontata, in una delle dinastie industriali storiche più conosciute al mondo. Pochi minuti, i parenti riuniti in assemblea a Torino, nell’edificio austero di via Chiabrera, la compostezza del dolore sui volti di persone a cui la sorte aveva già riservato altri lutti pesanti. Il breve regno di Umberto alla guida del gruppo di famiglia partiva così, e nessuno poteva immaginare che sarebbe durato solo sedici mesi, fino al giorno della scomparsa, il 27 maggio 2004.

A Umberto toccava in età matura (aveva 69 anni) ciò che in passato gli era stato negato, a causa soprattutto delle resistenze di Enrico Cuccia e Mediobanca, determinanti in quell’epoca nel panorama capitalistico italiano. E gli toccava nel momento più difficile – tolta forse la fine della guerra -, quando la Fiat, nel mezzo di una delle più gravi crisi della sua storia secolare, rischiava di fallire ed essere espropriata dalle banche. Diranno gli storici, quando il tempo lo consentirà, quali siano state le cause del declino – poi seguito da una formidabile ripresa – del gruppo fondato nel 1899 dal nonno di Umberto, il senatore Giovanni, e condotto da un secolo all’altro, attraverso mille peripezie, da suo fratello Gianni.

Ma certo, nel poco più di un anno in cui rimase al governo della Fiat – mesi terribili, con i sintomi evidenti della depressione in cui l’Italia si dibatte ancor oggi -, Umberto, prendendo le decisioni necessarie e dolorose del momento, riuscì a impostare il salvataggio dell’impresa, che dopo la sua morte avrebbe conosciuto una trasformazione radicale e allargato i suoi confini mondiali sotto la guida di John Elkann e Sergio Marchionne.

Nell’ufficio di corso Matteotti e nel palazzo in cui Umberto, il più giovane dei suoi fratelli e sorelle, era cresciuto da bambino, si respiravano la tensione e la cupezza di quel giorno. I telefoni trillavano incessantemente, alternando comunicazioni di Paolo Fresco, il presidente uscente, delle banche, che premevano per conoscere le intenzioni del nuovo capo, e delle agenzie di rating, che avevano già declassato il rating della Fiat al rango di “spazzatura”. Era impossibile – e Umberto amaramente se ne rendeva conto – sapere se esistessero davvero le condizioni della ripresa. Ed era chiaro che il carisma dell’Avvocato, il suo standing internazionale, avevano esercitato fino all’ultimo un argine ai voraci appetiti dei mercati, che volevano una Fiat liquidata, fatta a pezzi e venduta ai migliori offerenti.

«È stato Gianni a chiedermi di sedere a questo posto – esordì, nella sua prima intervista da presidente -. È una responsabilità che la nostra famiglia deve assumersi, specie in un questo frangente». La conversazione proseguì per un’ora, interrotta dalle molte incombenze che si affollavano. Umberto volle fare un quadro della situazione, senza nascondere né edulcorare nulla, e subito indicare una strategia. Nel panorama di un gruppo impegnato, oltre che nell’industria automobilistica, in un variegato insieme di iniziative, dalla finanza alle assicurazioni, dall’editoria alle comunicazioni alla grande distribuzione, si trattava di scegliere, immediatamente, cosa salvare e a cosa rinunciare.

Ed anche se le attività diverse dall’ “automotive”, a cui Umberto si era dedicato per gran parte della sua vita, erano state pensate proprio come rimedio anticiclico alle inevitabili e periodiche crisi industriali, l’impegno principale, la «responsabilità» della famiglia, come l’aveva definita l’Avvocato, non poteva che essere la Fiat. Il nuovo presidente avrebbe subito annunciato un paio di interventi simbolici, come la vendita dell’edificio del Lingotto, lo stabilimento automobilistico di inizio Novecento trasformato in centro commerciale e palazzo dei congressi, e della villa di Marentino, sulla collina di Torino, in cui aveva sede la più importante scuola-quadri del gruppo. E avrebbe tentato invano di evitare la dismissione, quasi immediata, delle Assicurazioni Toro, che in pochi mesi furono rivendute da chi le aveva acquistate al doppio del prezzo per cui erano state cedute.

Questa della speculazione – che mirava ad accaparrarsi pezzi sani di un corpo aziendale indebolito dalla virulenza della crisi, per poi trasformarli, accorparli, amputarli e rivenderli, con l’obiettivo della maggior convenienza contingente, ma non sempre dell’efficienza – fu certamente l’insidia più forte che Umberto dovette affrontare. E non a caso la spiegazione più frequente che gli capitava di dare, a chi lo interrogava sui suoi obiettivi, era che «solo riducendo i suoi confini, tagliando, limitandosi», la Fiat si sarebbe salvata.

A suo giudizio non c’era altra strada, anche se oggi potrebbe sembrare incredibile che la drastica potatura umbertina abbia posto le premesse della crescita globale che il gruppo ha vissuto nel decennio successivo. Ma allora, con un malato improvvisamente aggredito da un virus che non sembrava lasciargli scampo, la strategia più logica, forse l’unica via di salvezza, non poteva che essere quella.

Umberto chiamò al suo fianco come amministratore delegato l’ingegner Giuseppe Morchio, un manager proveniente dalla Pirelli. Insieme, in quei giorni così pesanti, formavano una strana coppia. Solitario, schivo, attento, specialmente in pubblico, alle proprie parole, il presidente, con la cautela e il carattere tipici di un piemontese e la passione di famiglia per la Juventus. Estroverso, sorridente, a volte inaspettatamente torrenziale, il Ceo, un appassionato di vela che amava il mare in tempesta. In breve, si diffuse la sensazione che l’assortimento tra i due fosse non proprio felice. E quando Morchio annunciò che la Fiat si sarebbe salvata proprio grazie al «piano Morchio», l’irritazione di Umberto, che avrebbe preferito che si fosse parlato semplicemente di un «piano Fiat», trapelò.

Nell’autunno di quel tremendo 2003 si sparse voce che Umberto stava male. I vertici della Fiat facevano di tutto per circoscrivere e smentire le indiscrezioni, ma non appena si rese conto della sua gravità fu lui personalmente ad aprire la rete del silenzio. Chi andava a fargli visita, lo trovava assistito dagli stessi medici che solo l’anno precedente avevano curato suo fratello Gianni, e prima ancora suo figlio Giovannino, morto giovanissimo, nel ’97, quando era già stato designato al ruolo che troppo tardi era arrivato al padre. Un destino infame e purtroppo già scritto.

Ma prima di morire, preoccupato che il lavoro appena iniziato, e che iniziava a dare i suoi frutti, potesse essere compromesso dalla sua scomparsa, Umberto volle imprimere un indirizzo anche alla Fiat che sarebbe venuta dopo di lui. A sorpresa, in una delle mattine in cui erano andati a sottoporgli le decisioni correnti, i suoi collaboratori lo sentirono parlare di Sergio Marchionne, un nome che conoscevano appena, con un apprezzamento superiore alla sua prudenza abituale. Non era molto infatti che Umberto aveva deciso di acquistare la Sgs, una società svizzera di revisione di conti di cui appunto Marchionne era amministratore. Successivamente aveva voluto che lo stesso Sergio entrasse a far parte del Consiglio d’amministrazione della Fiat: dove, gli risultava, aveva istintivamente stretto amicizia con suo nipote John Elkann. «Se doveste trovarvi in una situazione imprevista – sussurrò a fatica, prima di congedarsi – ricordatevi di quel che vi ho detto».

Gestione cookie