La complicata vicenda dei marò Salvatore Latorre e Massimiliano Girone, si è arricchita di nuove puntate:
– un articolo dell’ex ministro degli Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata in cui spiega perché si è dimesso;
– due articoli di Repubblica in cui si rivela che i proiettili che hanno ucciso i due pescatori indiani non furono sparati da Latorre e Girone e da cui si deduce che quel giorno nell’Oceano Indiano il peschereccio presunto pirata fu oggetto di un tiro al bersaglio incrociato cui parteciparono più di due fucili, il tutto alla luce di un rapporto della Marina militare italiana sull’incidente.
Repubblica accusa anche il comandante della Enrica Lexie di non avere rispettato le procedure e di avere contribuito al caos.
A leggere i due articoli, tutte le ipotesi sono aperte:
– che davvero gli indiani fossero pirati part time per rimpinguare i magri guadagni della pesca;
– che davvero fossero dei pescatori sulla rotta del rientro finiti per caso sulla rotta della petroliera italiana, tutti addormentati dopo una notte di pesca, incluso il timoniere fiducioso del pilota automatico;
– gli indiani attirarono gli italiani in una trappola, invitandoli nelle loro acque territoriali con l’esca di andare a identificare dei battelli pirata: e gli italiani ci caddero con le scarpe.
Scrive Terzi, sul Giornale di Berlusconi:
“Mi sono dimesso perché ho ritenuto, e ritengo, profondamente sbagliato il passo indietro che è stato fatto. Lo ritengo sbagliato e ingiusto per Massimiliano e Salvatore, per le loro famiglie, per ciò che rappresentano le nostre Forze Armate nel nostro Paese e nel mondo; lo ritengo negativo per le migliaia e migliaia di italiani e di imprese che lavorano all’estero e che devono poter contare sul sostegno coerente e determinato del loro Paese quando si trovano in difficoltà”.
L’articolo è un po’ contorto e riflette la polemica che ha opposto e oppone Terzi al presidente del Consiglio Mario Monti:
“L’ epilogo naturale e coerente del libro I nostri marò doveva essere, sino alle ore 20 del 20 marzo, la conferma che Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sarebbero rimasti in Italia, sullo sfondo di una crescente e ampia pressione internazionale su New Delhi [anche perché da parte indiana c’era stata la gravissima e palese] violazione della Convenzione di Vienna con la sospensione dell’immunità all’Ambasciatore italiano [che] doveva essere oggetto di scuse e di assicurazioni formali all’intera comunità internazionale circa il rispetto delle basilari regole nelle relazioni tra gli Stati”.
Qui non si può dare torto a Terzi: non si è mai visto un ambasciatore tenuto in ostaggio, nemmeno nei momenti più cupi della guerra fredda né di quella guerreggiata negli ultimi cent’anni almeno:
“L’epilogo del tardo pomeriggio del 21 marzo sembra invece tratto da una storia e da motivazioni completamente diverse da quelle che avevano guidato, con prudenza e al tempo stesso fermezza, la strategia del Governo e della diplomazia del nostro Paese dal momento in cui, con la cattura dei nostri marò a metà febbraio 2012 nel porto di Kochi, si è aperta una pagina difficile nei rapporti con l’India.
“Le esatte motivazioni di questa inversione di rotta improvvisa, approfondita e discussa in modo assai sommario prima della ripartenza per l’India dei nostri marò, sembrano ancora, in gran parte, da spiegare e da scrivere. Così come sembrano ancora da spiegare e chiarire le condizioni, da me insistentemente richieste non appena appresa la notizia che Latorre e Girone stavano comunque per imbarcarsi per New Delhi, che avrebbero dovuto essere ottenute dall’India prima di riconsegnare i due marò”.
“Non appena [i due marò sono] rientrati in Italia per votare, il Governo esaminava collegialmente la situazione. Decideva di effettuare passi formali con New Delhi, ne informava immediatamente i partner (io stesso ne parlai il 5 marzo al segretario generale delle Nazioni Unite, a New York) e apriva con l’India quella che in diritto internazionale si chiama «una controversia», nella consapevolezza che vi sarebbe stata una reazione, che il Governo riteneva, a quel punto, di dovere e poter sostenere. Gli indiani conoscevano perfettamente la sensibilità delle considerazioni economiche. Così come le conoscevamo noi. Un approfondimento dell’insieme delle relazioni bilaterali faceva capire perfettamente quanto ogni ipotesi di misure e contromisure commerciali sarebbe stata autopunitiva, per il Paese che volesse mettersi su questa strada.
“A questo punto è importante ricordare la sequenza. I marò tornano a votare. Ai primissimi di marzo si decide collegialmente di proporre agli indiani consultazioni, ex art. 100 Unclos, che vengono respinte. La settimana dal 5 al 10 marzo vede un’intensa concertazione governativa, che si conclude con la decisione condivisa dalla Presidenza del Consiglio di notificare all’India che erano modificati radicalmente i presupposti per la validità del noto Affidavit , che i marò sarebbero rimasti per essere giudicati in Italia, almeno sin quando un arbitrato internazionale non avesse deciso in merito alla giurisdizione.
“Il 20 tutto è rovesciato. Gli indiani dicono pubblicamente che «la forza paga con l’Italia». I nostri partner internazionali sono esterrefatti, così come le Forze armate e la diplomazia italiana”.
Da qui le dimissioni.
I due articoli di Repubblica, firmati da Maura Gualco e Vincenzo Nigro, si basa sul rapporto redatto, fin dal maggio del 2012, dall’ammiraglio Alessandro Piroli, l’ufficiale più alto in grado inviato in India subito dopo l’incidente:
“Piroli elenca i fatti, le prove, le ipotesi note in quel momento sulla morte dei due pescatori. Un’inchiesta che non accusa, non contesta, ma elenca fatti o perlomeno versioni di fatti. E che riporta, nero su bianco, anche i risultati delle perizie balistiche indiane, secondo cui il calibro dei proiettili ritrovati nei corpi dei pescatori uccisi è il 5,56 Nato, e le armi che hanno sparato non sono quelle di Girone e Latorre, ma quelle di altri due marò che erano a bordo della Lexie”.
Interessante la ricostruzione dei fatti di quel 15 febbraio 2012:
Sono le 16,25 ora indiana, quando «in acque internazionali, a circa 20 miglia dalla costa indiana [….] Latorre e Girone sono stati allertati per la scoperta al radar di una piccola imbarcazione…che si trovava a 2,8 miglia dal mercantile, che fino al momento non si era accorto di nulla. Le due navi sono in rotta di collisione. Quando il peschereccio è ad 800 metri dalla Lexie iniziano le prime segnalazioni luminose.
«Latorre ed il sergente Girone si adoperano per effettuare segnalazioni luminose sicuramente visibili dall’esterno — si legge nel rapporto — e mostrano in maniera evidente le armi al di sopra del loro capo». L’imbarcazione non cambia rotta e procede dritta contro la Enrica Lexie.
Quando il peschereccio è a 500 metri di distanza i due marò si convincono che si tratta di pirati. Anche il comandante, Umberto Vitelli, ne è convinto. «Il comandante della nave attiva l’allarme generale, al quale sono combinati anche i segnali sonori antinebbia (sirene), avvisa via interfono l’equipaggio che si tratta di un attacco pirata ». E’ a quel punto che «Latorre e Girone sparano le prime due raffiche di avvertimento in acqua». Il natante si avvicina ancora. Il sospetto che si tratti di pirati si fa ancora più concreto quando le due imbarcazioni si trovano a 300 metri l’una dall’altra ed in continuo avvicinamento.
“A questo punto un evento decisivo: «Girone identifica otticamente tramite binocolo la presenza di persone armate a bordo del motopesca. In particolare si accorge che almeno due dei membri dell’equipaggio sono dotati di armamento a canna lunga portato a tracolla con una postura evidentemente tesa ad effettuare un abbordaggio della nave. Latorre esegue la terza raffica di avvertimento in acqua, costituita da quattro proiettili».
“Il peschereccio non accenna a cambiare rotta. Anzi continua ad avvicinarsi fino a raggiungere una distanza di 100 metri, puntando al centro della nave. A quel punto i due marò riferiranno all’ammiraglio Piroli di aver sparato l’ultima raffica, ancora una volta in mare (non sui pescatori-pirati), quando soltanto 50 metri separano la petroliera dal St. Antony. Ed ecco che finalmente il peschereccio sfila verso il mare aperto”.
A fronte di questa versione, c’è quella di Freddy, il proprietario del peschereccio, il St.Anthony, Freddy. Egli
“spiega alla polizia del Kerala «di essersi svegliato a seguito di un suono e di aver scoperto il timoniere (Jelestine) già deceduto. Nel mentre, transitava una nave la cui descrizione è coerente con quella della Lexie che apriva il fuoco contro la sua imbarcazione con il “continuous firing” da circa 200 metri di distanza provocando la morte di un secondo membro dell’equipaggio, Aiesh».
“A bordo erano presenti 11 pescatori: tutti dormono dopo una notte di pesca, gli unici svegli sono quelli che moriranno, e forse lo stesso timoniere si era assopito. L’unico a testimoniare sarà il proprietario Freddy, svegliato dal suono delle sirene. Quindi la barca avrebbe avanzato senza essere governata fino ad andare in rotta di collisione con la petroliera italiana”.
C’è poi il capitolo scabroso di chi dette l’autorizzazione alla petroliera di rientrare in porto.
Secondo Gualco e Nigro
“questo ormai è chiaro. Il ministro della Difesa, nel novembre scorso, rispose così: «L’autorizzazione a procedere verso le acque territoriali indiane è stata data dalla compagnia armatrice, una volta contattata dal comandante della nave. Ciò tuttavia, per la presenza del Nucleo militare di protezione di bordo è avvenuto a seguito di preventiva informazione della catena di comando militare nazionale». La decisione fu dell’armatore, la Marina diede il suo nulla osta, ma è chiaro perché, e il rapporto Piroli lo spiega: l’equipaggio aveva ricevuto una telefonata sul telefono Inmarsat, la Guardia Costiera indiana chiedeva alla Lexie di tornare in porto per identificare due battelli di pirati”.
C’è poi il capitolo della
“serie di pesanti anomalie del comportamento del comandante della petroliera, anomalie che non solo evidenziano il mancato rispetto delle procedure previste in caso di sospetto attacco di pirati, ma possono aver contribuito a rendere più caotico l’intervento dei marò.
“È scritto nell’Inchiesta: «Il comandante di N. Lexie ha messo in atto solo una parte delle azioni di difesa passiva raccomandate per evitare l’attacco di pirati. Si è limitato ad incrementare la velocità (di un nodo) senza manovrare per modificare la cinematica di avvicinamento, azionando i fischi e le sirene solo nella fase terminale dell’azione». Le procedure prevedono invece che la nave cambi velocemente e in maniera repentina rotta, e continui con variazioni di rotta per contrastare una eventuale rotta di attacco o comunque per segnalare il pericolo di una possibile collisione. L’inchiesta aggiunge che «tra la nave e il Nucleo sono probabilmente mancate più stringenti forme di coordinamento per la gestione unitaria dell’evento e l’individuazione delle migliori cinematiche/soluzioni da porre in essere».
Repubblica offre una “interpretazione arbitraria”:
“se la nave avesse cambiato rotta, se si fosse addirittura allontanata dal St. Anthony, i militari avrebbero avuto più tempo e più lucidità per valutare e reagire con correttezza. Altra critica: «Si sarebbe potuto anticipare l’uso delle sirene di bordo, nonché fare ricorso a getti d’acqua ad alta pressione. Inoltre sarebbe stato opportuno ricercare un contatto radio con l’imbarcazione sul canale VHF di emergenza (il canale 16, quantomeno per dirimere i dubbi sulla cinematica», ovvero sulle rotte seguite dalle due unità. «In definitiva la nave con i suoi mezzi avrebbe potuto attuare migliori forme di coordinamento e supporto all’azione di contrasto della pirateria».
Nell’insieme, il tono è colpevolista verso gli italiani. Come è possibile, è il dubbio sottostante che possano trasformarsiin pirati i pescatori imbarcati su un peschereccio che si chiama St. Anthony, cioè dedicato a Sant’Antonio
“perché i pescatori erano cattolici”.
Quelle cosacce le fanno i musulmani.)
Scrivono Gualco e Nigro che
“l’ammiraglio Piroli arriva ad ipotizzare che il St. Anthony possa essere stato utilizzato per operazioni sia di pesca che di pirateria: possibile, anche se poco probabile, perché una volta arrivato in porto al comandante del St. Anthony viene permesso di vendere ben 1.300 chili di pesce prima che il peschereccio venga sequestrato”.
Vale ricordare, al di là di tutto, quello che ha scritto, il 22 marzo 2013, Gianni Riotta su La Stampa:
“(…) Se, davanti al disastro del ritorno dei sottufficiali del San Marco in un’India ora infuriata per il doppio voltafaccia del nostro governo il lettore riflettesse, «Beh l’India tratta l’America con maggiore rispetto dell’Italia, diverso peso nel mondo» sbaglierebbe. Perché nella discussione che da più di un anno divide due Paesi di solito amici, due democrazie, due tra le culture più antiche del pianeta, India e Italia, nessuno ricorda mai che la Marina Militare di Sri Lanka, non certo una flotta da paura, ha ucciso negli ultimi anni 500 (cinquecento) pescatori indiani, ferendone migliaia, sequestrando pescherecci e attrezzature senza che i diplomatici mai venissero presi in ostaggio, i militari di Sri Lanka processati, che i governi montassero la propaganda etnica e populista.
“All’Italia gli indiani non hanno concesso quel che concedono agli Usa e a Sri Lanka. Chiunque, gli indiani per primi sulla loro difficile frontiera atomica con Cina e Pakistan, si occupi di zone militari a rischio sa che gli incidenti sono frequenti, dolorosi, inevitabili. E che la diplomazia serve dopo, a non farli degenerare in aggressività. Ma sull’Italia le autorità indiane, con passione militante le locali, riluttanti le nazionali, hanno deciso di puntare i piedi. Volevano una prova di forza che, agli occhi dell’inquieta opinione pubblica della sterminata democrazia e sulla scena mondiale dove la nuova India cerca prestigio, desse loro credibilità. Gliel’abbiamo data con ingenuità, l’hanno stravinta”.
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