BERGAMO – C’è il quadro che dipinge lui, Massimo Giuseppe Bossetti, il presunto assassino di Yara Gambirasio, e c’è la ricostruzione degli inquirenti, come scrive Giuliana Ubbiali del Corriere della Sera: il padre e marito amorevole contro l’uomo con un segreto inconfessabile.
Amore, litigi, presunti tradimenti, sesso. Lui risponde. Se non capisce bene la domanda, chiede che gli venga ripetuta. L’interrogativo fondamentale a cui non dà risposta, però, è sempre lo stesso, cioè come il suo Dna sia finito sugli slip e sui leggings della vittima. Quello di quattro giorni fa è il quinto interrogatorio. Per due volte Bossetti aveva scelto il silenzio. Poi, davanti al gip, ha sollevato la chiusa del fiume di parole con cui ha riempito 67 pagine di verbale. Se fosse «l’uomo nero» stereotipo del male, metterebbe d’accordo tutti. Invece è il bergamasco medio che si spacca la schiena e si fa i calli alle mani nei cantieri.
(…) Silvia Gazzetti è l’avvocato che lo difende con il collega Claudio Salvagni. Va un giorno sì e uno no a fargli visita. Lui la accoglie con il sorriso: «Meno male che è arrivata», oppure «la aspettavo ieri, ma sono contento che sia qui oggi». Se gli sfugge una parola colorita, ripara al volo: «Mi scusi, avvocato». Le dà ancora del lei. Si presenta sempre in ordine, curato. «È riservato, restìo ad esprimere emozioni, come lo sono i bergamaschi in genere», lo descrive l’avvocatessa. L’ha visto sorridere, abbattuto, piangere. «Ma non si altera mai, nemmeno quando dice, e lo fa spesso, “ma che cosa ci faccio qui?”». La sua calma nel momento del fermo aveva colpito: «Fosse successo a me avrei urlato che ero innocente», un commento diffuso. «Ma questo è il suo carattere pacifico. Non significa che non stia male – ribatte l’avvocato -. Qualcuno si è chiesto perché non abbiamo presentato ricorso al Riesame contro la carcerazione. La risposta è che, a fronte del forte indizio del Dna, stiamo cercando elementi concreti su cui basare la richiesta».