Coronavirus, la morte di un giornalista mise in luce la crisi di posti letto in rianimazione

Coronavirus ha messo sotto gli occhi di tutti la tremenda e tragica crisi in cui versa la sanità pubblica in Italia. Pochi giorni prima che l’epidemia di Coronavirus esplodesse, Carlo Picozza aveva avviato sulle pagine di Repubblica un’inchiesta che aveva rivelato, a quei sempre meno lettori della edizione romana, le carenze della Sanità nel Lazio. 
Essendo Nicola Zingaretti, segretario del PD, nella qualità di presidente della Regione Lazio, ultimo responsabile della situazione, come Fontana in Lombardia, De Luca in Campania, Toti in Liguria e via via, l’inchiesta è rimasta confinata nelle pagine locali.
In realtà la responsabilità prima della crisi è da attribuire alla Germania, con i tagli imposti col Fiscal Compact. L’esecuzione da parte delle Regioni dei tagli, visto che la spesa per la salute vale la maggior quota del reddito attribuito alle Regioni stesse, è stata poi fatta in modo da brillare per la incompetenza e non solo.
E anche per un disegno complessivo, condiviso da Nord a Sud, da destra e sinistra, di ridimensionamento delle strutture di sanità pubbliche e di accrescimento di quelle private.
Questo è stato il vero compromesso storico. Mentre la sinistra inseguiva Berlusconi sulla sua discutibile moralità privata, gli lasciava campo libero nella gestione della Sanità, anzi favoriva il suo partito e si piegava alla sua ideologia.
A scatenare l’ira dei giornalisti di Repubblica non è stata tuttavia una scelta della direzione del giornale. Il fuoco covava da tempo. Picozza per anni ha scritto contro la politica sanitaria della Regione Lazio.
A riaccenderlo è stata la morte inattesa, quasi rubata, di uno dei più antichi redattori del giornale, quasi un fondatore, Nando Ceccarini, un grand’uomo, che rinunciò a una nuova fioritura di carriera in età già avanzata per dedicarsi tempo pieno alla cura della moglie inferma.
Ceccarini è morto a 81 anni,
 
“così, per un trasferimento in ambulanza da un ospedale a un altro, dal Pertini al Sant’Eugenio, perché nelle corsie del primo non ci sono posti letto di Rianimazione per mancanza di infermieri”.
 
Nella Rianimazione dell’Ospedale Pertini di Roma, che vale più di 30 mila pazienti all’anno in pronto soccorso, “i letti sono al lumicino rispetto al fabbisogno di salute della popolazione che si rivolge a noi”, ha detto un medico dell’ospedale a Picozza, che chiosa:
 
“E si continua a morire. Tragedie che si consumano senza allarme alcuno dalle associazioni cosiddette “a difesa””.
 
Eppure, sostiene Picozza, in quell’avamposto assediato da un popolo dei quartieri più popolosi e meno abbienti di Roma, ci sarebbero altri quattro letti nella Rianimazione. “Non vengono attivati perché mancano infermieri e anestesisti”. Si tratta dei posti della cosiddetta Tipo, Terapia intensiva postoperatoria. “Letti tante volte annunciati e mai attivati. Così, si soffre e si muore, complici il blocco del turnover e una spending review che i vertici della sanità regionale annunciavano come “messi alle spalle” più di un anno fa”.
Le ultime ore di vita di Nando Ceccarini si snodano così. Perde i sensi e casca in terra alle 14.30 di un lunedì. È in arresto cardiaco. Il giglio Lorenzo, racconta Carlo Picozza, gli pratica il massaggio toracico e la respirazione bocca a bocca. L’ambulanza, arrivata 25 minuti dopo la chiamata, vola al Pertini. Si rileva un’occlusione importante a una coronaria e, in Emodinamica per l’angioplastica, gli viene applicato uno stent.
I valori rientrano nella norma. Tranne quelli polmonari. Le difficoltà respiratorie insidiavano la regolarità cardiaca con disfunzioni al ventricolo destro. Il malato aveva bisogno di essere assistito in Rianimazione.
Passano un giorno. La cardiologa di turno nell’unità di Terapia intensiva coronarica, rassicura i figli: le condizioni cardiologiche di Ceccarini restano stabilì ma aspettiamo di trasferirlo in Rianimazione per sostenere adeguatamente le sue funzioni respiratorie.
Tornati a casa, dopo un’ora e mezza, i figli di Ceccarini ricevono una telefonata dal Pertini: “Tra poco trasferiremo vostro padre al Sant’Eugenio, dove si è liberato un letto in Rianimazione”.
I figli inorridiscono:“Non potrà farcela, tenetelo lì, ce l’avevate assicurato”. Amici medici li confortano nell’indignazione. Niente. Nando Ceccarini arriva cianotico al Sant’Eugenio con valori da shock e, tempo 20 minuti, se ne va.
Al Pertini i posti in Rianimazione non erano fruibili per mancanza di personale. Insufficienza di organico, causa tagli.
Spiega Picozza:
 
“Nella Rianimazione del Pertini, accanto agli otto posti letto attivi e ai quattro inattivi, c’è n’è un altro, pronto per l’uso ma offlimits per i più, complice sempre la carenza di infermieri. E, neanche di fronte a casi gravi come quello di Nando Ceccarini, ci si adopera per utilizzarlo. Neppure di fronte a un rischio di morte si è scelto di attivarlo. Pietà e professionalità non abitano più al Pertini né in altri ospedali pubblici. Mentre i quattro letti della Tipo ( Terapia intensiva postoperatoria) avrebbero richiesto tempo per essere attrezzati, il nono posto della Rianimazione, si sarebbe potuto attivare nel giro di un’ora. Niente.
Perciò la Procura vuole vederci chiaro sulla morte di Ceccarini”.
In un altro articolo, Lorenzo d’Albergo approfondisce le cause su un piano generale:
“Il numero di posti letto in picchiata. Il personale, dagli infermieri ai dipendenti amministrativi, ridotto all’osso. E le imposte più alte d’Italia. Tartassati e mal serviti, i romani pagano salato il commissariamento della sanità laziale. Partito nel 2008, il lungo e complesso processo di risanamento del settore salute ha lasciato in eredità un quadro critico.
“A parlare sono i numeri. Quelli elaborati dal dipartimento Statistica del Campidoglio raccontano lo strano caso di 1.947 posti letto spariti nel nulla. Nel 2010 erano 16.111, nel 2017 sono diventati 14.164.
“Il calo complessivo? Tra day hospital e riabilitazione, un ridimensionamento dopo l’altro, gli ospedali di Roma hanno perso il 12,1% dei posti letto.
“Senza infermieri e medici d’altronde è impossibile mandare avanti l’assistenza. Come spiega Roberto Chierchia, sindacalista Cisl, negli anni del commissariamento « il Lazio ne ha persi circa 6.000 » . Preoccupa, poi, l’età media degli operatori: « Quasi un dipendente su due rientra nella fascia d’età 58-67 anni. Con quota 100 ci saranno ancora più uscite. Gli infermieri? Invecchiano anche loro: in media hanno 54 anni». E il loro è un lavoro pesante.
“La Regione è corsa ai ripari con un maxi- concorso: nel 2020 assumerà 1.040 infermieri.
“Per uscire dalla crisi, però, servirà qualcosa in più. Le rilevazioni di Cittadinanzattiva negli ospedali del Lazio lasciano pochi dubbi in questo senso. Secondo l’ultimo report, l’attesa media in un pronto soccorso romano o nel resto della regione è di 141 minuti per un codice bianco, 88 per un codice verde e 51 per un codice giallo. Ma ci sono anche casi limite, come le 6 ore di attesa per un codice bianco al Policlinico Tor Vergata”.
In questo contesto, poco stupisce l’emorragia di pazienti in fuga verso le altre regioni.
“La spesa sanitaria in uscita stacca di diversi milioni di euro quella in entrata. Il saldo tra romani e laziali in fuga e degenti in arrivo dal resto d’Italia è negativo. Stando agli ultimi dati disponibili, relativi a due anni fa, la Regione in 12 mesi ha finito per perdere 239 milioni di euro. Circa 84 sono finiti in Toscana, 53 in Abruzzo e 50 in Umbria”.
 
Solo Campania e Calabria hanno fatto peggio.
E così, tra liste d’attesa e tagli cresce il business della sanità in convenzione. A beneficiare della cura dimagrante della Regione sulle prestazioni sono i privati. Nel 2018 inoltre stanziati 405 milioni al Gemelli e accreditati 200 posti al Bambino Gesù, rivela Daniele Autieri.
È, spiega, “la deriva naturale del taglio massivo alla spesa regionale, conseguenza di una cura dimagrante dei costi che ha obbligato il pubblico a stringere la cinghia, favorendo in maniera indiretta il privato, dove i cittadini sono costretti ad andare per evitare liste di attesa infinite. Una prassi che in molti casi si verifica anche per gli interventi. Questo accade al San Pietro Fatebenefratelli, dove sono previste integrazioni a pagamento anche per i pazienti oncologici che effettuano radioterapia. Ma l’ospedale non è l’unico: il privato sociale è diffuso anche al Fatebenefratelli dell’isola Tiberina, al Cristo Re, all’IDI, al San Carlo di Nancy e al San Raffaele”.
I tempi di attesa sono lunghissimi, ma si accorciano in maniera significativa pagando.
Inoltre, mentre negli ultimi anni i tagli alla spesa hanno imposto ai grandi ospedali pubblici una riduzione consistente tanto del personale quanto dei posti letto, i convenzionati hanno spesso sforato i tetti di spesa, arrivando a chiedere un aiuto finanziario alla Regione quando i conti non tornavano. E in molti casi proprio la Regione ha stanziato risorse aggiuntive per i grandi ospedali privati.
È successo con il Policlinico Gemelli, al quale nel 2018 sono stati trasferiti 405 milioni di euro, e sempre nel 2018 al Bambino Gesù di Palidoro sono stati convenzionati (quindi riconosciuti dalla Regione) quasi 200 nuovi posti letto”.
Ancora Lorenzo D’Albergo svela un altro chiamiamolo paradosso della sanità romana.
Quello delle quattro ambulanze comprate sei mesi fa per 423 mila eurovper trasportare i pazienti da un reparto all’altro e poi parcheggiate tra i padiglioni, inutilizzate.
Manca il personale. Chissà perché, sono andati deserti i bandi interni per affidare i mezzi ai dipendenti già assunti dall’ospedale.
C’è chi maligna: quando ci sono di mezzo i sindacati, le questioni di potere emergono sempre. Sarà una coincidenza, ma con i privati i rapporti sono più snelli. Non si intrecciano lealtà politiche, affiliazioni, calcoli elettorali.

 

 

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