MILANO – Un gruppo di medici e ricercatori del Centro Cardiologico Monzino IRCCS ha scoperto perché le persone con diabete di tipo 2, in caso di infarto acuto del miocardio, hanno una mortalità precoce (cioè nei primi giorni dopo l’evento) quasi doppia rispetto ai non diabetici: la causa non è il diabete in sé, ma la disfunzione cardiaca e renale frequentemente associata alla malattia, che potrebbe essere contrastata con farmaci appropriati.
I risultati della ricerca sono stati pubblicati su Diabetes Care. “Sappiamo fin dagli anni ’60 che le persone con diabete di tipo 2 muoiono più di frequente dopo un infarto STEMI, la forma più grave di infarto del miocardio”, spiega Giancarlo Marenzi, responsabile della Terapia Intensiva Cardiologica del Centro Cardiologico Monzino e autore dello studio. “Tuttavia, non si conosceva esattamente il perché di questa evidenza: fino a ieri abbiamo pensato che a peggiorare la prognosi fosse la presenza di numerose patologie spesso riscontrate nei pazienti diabetici. Ma il nostro studio ha dimostrato che non è proprio così”, aggiunge. “Abbiamo misurato – continua Nicola Cosentino, cardiologo della Terapia Intensiva Cardiologica del Centro Cardiologico Monzino e coautore dello studio – nei pazienti con diabete di tipo 2 che accedevano al Monzino e al Policlinico San Matteo di Pavia con infarto STEMI, una serie di parametri tra cui la funzionalità cardiaca, tramite la frazione di eiezione del cuore, e la funzionalità renale, tramite il dosaggio della creatinina. Gli stessi parametri sono stati misurati anche nei pazienti infartuati non diabetici. Il confronto dei dati ha rivelato che la mortalità era maggiore nei pazienti che avevano un danno ai reni o alla funzione del cuore al momento del ricovero, problematiche più frequenti proprio nelle persone con diabete. Le conclusioni del nostro studio dimostrano dunque che non è il diabete di per sé ad aumentare il rischio di mortalità precoce nell’infarto, bensì la ridotta capacità contrattile cardiaca e della funzione renale di questi pazienti”.
“Questa scoperta – continua Stefano Genovese, Responsabile dell’Unità di Diabetologia, Endocrinologia e Malattie Metaboliche del Centro Cardiologico Monzino e coautore dello studio – apre le porte alla prevenzione del rischio di mortalità per infarto nei diabetici. Sappiamo infatti che la disfunzione cardiaca e renale è più frequente in questi pazienti, ma gli interventi per evitare un danno renale e cardiaco sono molteplici e relativamente semplici: non fumare, alimentarsi in modo corretto e praticare attività fisica, tenere sotto controllo glicemia, pressione arteriosa, colesterolo e peso corporeo. Quando tutto questo non è sufficiente, è fondamentale utilizzare i farmaci di nuova generazione per la cura del diabete, come gli agonisti del recettore del GLP-1 e gli SGLT2-inibitori, che non solo controllano la glicemia, ma proteggono anche cuore e reni, incidendo positivamente sulla diminuzione di eventi cardiovascolari con una riduzione della mortalità fino al 38 per cento”.
In Italia quasi quattro milioni di persone convivono con una diagnosi di diabete “ma meno della metà – sottolinea Genovese – viene curato da uno specialista diabetologo, che tuttavia è l’unico che può prescrivere i nuovi farmaci. Inoltre quasi il 10 per cento dei diabetici nel nostro Paese scopre la malattia a seguito delle sue complicanze”. Il nuovo studio “ci dimostra quanto sia importante identificare questa malattia precocemente – dicono i ricercatori – e curarla con un approccio multidisciplinare coordinato dallo specialista diabetologo. Oggi a tutti i pazienti che soffrono di diabete di tipo 2 possiamo dire con chiarezza che se la funzionalità renale e cardiaca viene preservata, la loro prognosi cardiovascolare sarà migliore e, diversamente da quanto si è creduto fino ad ora, non sarà diversa da quella dei non diabetici”. (fonte AGI)