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Erika, 10 anni dopo: il padre che perdona e la “vergogna” di Novi

di fmanzitti |17 Febbraio 2011 19:17

Erika De Nardo

NOVI LIGURE – Arrivi a Novi dieci anni dopo quel febbraio 2001 della mattanza di Erika e Omar a cercare di pesare quella tragedia terribile, “uno dei fatti più gravi nella storia criminale italiana” come hanno scritto gli esperti. Arrivi in un febbraio di pioggia e di erba sporca, con la villetta dove si consumò la tragedia di Erika De Nardo 17 anni, del suo fidanzatino Omar, 16 anni che scolora nella bruma grigia, sul bordo tra la città di Novi, trentamila abitanti tra Liguria e Piemonte e la sua campagna piatta e ondulata di capannoni e vigne, colline coltivate e grandi fabbriche come l’Ilva del patron Emilio Riva e la Novi-Elah -Dufour del cavaliere di cioccolato, il potente Flavio Repetto, la Campari, la Pernigotti e sopratutto l’Outlet di Serravalle il “non luogo” record, che richiama 3 milioni di utenti-consumatori all’anno, il boom italiano che neppure la crisi frena in un delirio di saldi, di saldi di saldi, con i russi e i giapponesi che si fanno portare qua da ogni parte del Nord Italia per spendere, comprare, andarsene via carichi di sacchetti firmati, anzi strafirmati in un’orgia di made in Italy.

Che c’entra Erika, la bella e maledetta Erika, che uccise la madre Susy di 45 anni con novantasette coltellate, la crocifisse e poi si accanì sul fratellino che invano aveva cercato di avvelenare e poi di soffocare, e avrebbe fatto lo stesso se ci fosse riuscita con il padre il serissimo ingegner Francesco De Nardo, dirigente alla Pernigotti, religioso praticante, padre premuroso, sopratutto padre che ha perdonato e che non ha mai parlato di quel 21 febbraio 2001, ore 20 e trenta di sera, quando aprì la porta di casa e vide l’Inferno dei suoi cari straziati? Mai una parola, una frase, un’occhiata che dicesse di quel dramma profondo.

C’entra Erika, perchè dieci anni dopo quella macchia, quella tragedia che segnò non solo la famiglia, la casa, questo angolo tranquillo di Nord Ovest serio e produttivo, ombelico di una sicurezza sociale galleggiante tra lo sviluppo postindustriale, grande possibilità infrastrutturali, centro gravitazionale di una coscienza civile a prova di fiammate padane, restano ancora appiccicate a Novi, Novi Ligure, provincia di Alessandria, il paese di Fausto Coppi e poi solo di Erika e forse ora un po’ di quell’Outlet della Glen MacGregor, multinazionale scozzese, il più grande d’Europa, una piovra che, però, porta il nome di Serravalle. Arrivi a Novi a rievocare la tragedia, a rimettere insieme i cocci di tante vite spezzate dalle coltellate furiose e inspiegabili e sbatti subito nelle parole del parroco a cui allora erano affidate le anime della famiglia De Nardo. Don Valentino Culacciatti, un anziano sacerdote che ora officia a Salice Terme, ma che per 24 anni amministrò quella chiesa sullo spalto verde della periferia di Novi, tra le mura dell’XI secolo , in fondo a un viale di villette piccole, riservate, eleganti ma sobrie, tra le quali c’è ancora quella della famiglia De Nardo dove lui, il padre ha continuato a vivere, senza avere paura dei fantasmi, ridipingendo con le sue mani quelle pareti macchiate di sangue.

“Un fatto demoniaco, un’esplosione isolata inspiegabile”_ ti racconta il parroco con la voce stanca di un sacerdote che tra i primi accorse in quella casa nella notte e scoprì lo scempio e vide il corpo della sua parrocchiana Susy De Nardo trafitto con una furia mai vista e vide il corpo del suo chierichetto, GianLuca sanguinante in un’altra stanza. E vide lo sguardo vuoto, come “ a parte” di Erika. Racconta il don che lei la ragazza di quel mistero demoniaco non frequentava la chiesa, come la mamma, religiosa, intransigente, dura, come il padre, fedele, presente ogni domenica, partecipe di quella piccola comunità, come il fratellino. “Pensavo che frequentasse un altro oratorio, quello del quartiere in cui abitavano prima”, spiega don Valentino con un’ombra di dubbio.

Erika non lo convinceva, ma non sapeva. Come non lo convinceva il clima che circondava una certa gioventù di quegli anni in quella campagna “aperta” di Novi, dove c’era il “gruppo della Stazione”, ragazzi a parte, lontani mille leghe dalla chiesa della Pieve di don Valentino e dai luoghi di aggregazione cattolica. “Spirava un’aria di malessere su quella gioventù, c’erano strani giri, c’era quella strada che porta a Serravalle, di notte piena di prostitute, di trafficanti di droga, di trans” rievoca il prete, recuperando pure la storia choccante del superkiller genovese Donato Bilancia, che in una notte di qualche anno prima della tragedia di Erika aveva trucidato due trans in quel viale equivoco.

“Ma loro, Erika e Omar, il fidanzatino un po’ succube, erano degli isolati, si erano chiusi nel loro mondo privato nella loro ossessione, pronta a esplodere – come racconta il parroco –  grazie al Diavolo.” Già, ma dieci anni dopo, cosa resta nella testa di quella ragazza diventata donna, tra un riformatorio e un carcere minorile, una laurea in filosofia presa con 110 e lode studiando il pensiero di Socrate? Cosa resta di Erika, pronta a uscire in semilibertà tra due anni, tredici dopo la sciagura a tre anni dall’avere scontato tutta la sua pena di 16 anni? La pietà religiosa ha le braccia larghe di Don Valentino: “Il recupero c’è stato, Erika è diversa. Legalmente è responsabile e non so come, perchè chissà in quali condizioni era quando ha compiuto quella follia. Ma per la legge di Dio è diverso, la legge di Dio perdona.”

Perdono: la stessa parola che ha usato dal primo momento il padre della ragazza Francesco, avviato su quella strada proprio dal parroco. “L’ho seguito io nei primi anni dopo quel giorno terribile. Non ha mai mollato. E’ sempre stato legato alla sua famiglia. Andava a trovare Erika in carcere, la aiutava, le ha mandato i fiori quando si è laureata, l’ha perdonata, l’ha detto subito e ha continuato la sua vita in un dolore silenzioso, immenso del quale la forza di non lasciarsi mai andare era come una guida che non si smarrisce mai. Quello sì che è un uomo da ammirare.” Piove leggero e grigio nel silenzio della campagna dieci anni dopo e uscire da quella chiesa con la porta semi aperta, come la verità sulla tragedia di Erika, è come tuffarsi nella ferita, invece tutta aperta, della sciagura che ha macchiato Novi, dieci anni dopo quando quei giorni possono ancora essere vissuti con particolare emozione più terrena, più “politica” che nelle parole del prete. “ Ci ho messo anni per cercare di cancellare la fama che la storia di Eika e Omar aveva appiccicato alla mia città” ti dice l’onorevole Mario Lovelli del Pd, il deputato principe di questa contea, che allora, all’epoca dei fatti, era il sindaco, un sindaco letteralmente travolto dalla sciagura.

Prima, nelle ore del dopo delitto, i responsabili erano stati individuati in una banda di immigrati, probabilmente albanesi che aveva assaltato la villa De Nardo per fare una rapina. E questa soluzione poliziesca, molto provvisoria, nella quale gli inquirenti credettero per poche ore, aveva scatenato una reazione della popolazione durissima. Erano gli anni della Lega scatenata sul tema della sicurezza, sul niet agli immigrati, con Forza Italia allineata è coperta. “Assaltarono il consiglio comunale  – racconta Lovelli –  ci assediarono, mi accusarono di essere personalmente responsabile, perchè avevo agevolato l’immigrazione con i servizi di prossimità. Strumentalizzarono ignobilmente perchè eravamo quasi in campagna elettorale e volevano cavalcare l’insicurezza sociale…”.

Ma quando, quaranta ore dopo il bagno di sangue, la verità emerse con le microspie che carpirono il terribile dialogo tra i due fidanzatini lasciati apposta in una stanza a parlarsi, le cose cambiarono. L’assedio alle autorità civiche, a quel sindaco che avrebbe governato la città per dieci anni, fu tolto, ma esplose un’altra emergenza, che in qualche modo dura ancora. “Improvvisamente  – racconta Lovelli – si sono accesi sulla città i riflettori di tutti i mass media nazionali e internazionali, perchè un fatto come quello non si era mai visto e sentito e Novi venne indissolubilmente legata a quella tragedia. Novi uguale Erika. Ho lottato anni per rompere quel cerchio e ora il decimo anniversario non gioca certo a favore di questa lotta. Ci fu un dibattito, qualche giorno dopo l’arresto dei due ragazzi, al teatro Ilva con tutte le televisioni nazionali presenti e così siamo diventati la capitale del disagio giovanile.”

Lovelli è un politico della razza forte ex Pci, in una città dove non è mai passata la Lega e dove il riformismo socialista se lo sono inventati quando il crack industriale degli anni Novanta stava mettendo in mutande la classe operaia delle grandi fabbriche basso piemontesi. Ha governato, quindi, l’uscita da un modello sociale economico che sembrava di ferro, nel cuore del Nor Ovest opulento e civile, ma questa storia di Erika e Omar, anche dieci anni dopo, è quella che gli fa tremare di più la voce, ben più della piazza piena di operai in rivolta per i tagli all’Ilva dell’acciaio “Non posso dimenticare il giorno in cui entrai in quella casa piena di sangue, insieme ai carabinieri e vidi quello scempio, non posso dimenticare il padre, dignitoso in un dolore muto, non posso dimenticare la faccia di Erika, chiusa, apatica, distante, prima che scoprissero la verità.” Nessuno può dimenticare, ma la città intorno, dieci anni dopo, in questo inverno di acqua, neve, grigio silenzioso, sembra voltarsi dall’altra parte. Vuole rimuovere, meglio voltarsi verso l’Outlet con il parcheggio che rigurgita di auto posteggiate ad ogni ora, in ogni giorno. Erika e Omar, opera del Diavolo.

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