Il paragone tra il ping pong di Avetrana giocato in queste ore da Michele e Sabrina Misseri, padre e figlia, sulla pelle della povera Sarah ha suscitato non solo tra giornalisti il paragone con il caso dei coniugi Bebawi. Si tratta dei coniugi egiziani Claire e Youssef Bebawi, uno dei quali – se non entrambi – aveva sicuramente ucciso l’amante di lei, protagonisti a Roma di un caso giudiziario clamoroso a metà degli anni ’60. Di cosa si trattò, esattamente? Poco dopo le 9 di mattina del 18 gennaio 1964, un lunedì, la segretaria, signora Arbib Karin, scopre che il suo principale, Faruk Chourbagi, è stato ucciso nel proprio appartamento in via Lazio 6. Chourbagi era libanese, aveva 27 anni, era il ricchissimo figlio di un ex ministro del Tesoro del re d’Egitto Faruk ed era il titolare della Tricotex, una società che commercia in lane con stabilimenti a Latina e uffici in via Veneto, la famosa via della “dolce vita” immortalata da Federico Fellini e raccontata in seguito anche da Eugenio Scalfari.
Le analisi dimostrano che Chourbegi è stato assassinato due giorni prima, sabato 16 gennaio, da qualcuno che gli ha sparato l’intero caricatore di una pistola calibro 7,65, colpendolo tre volte alla testa e una volta alla schiena, e gli ha anche sfregiato la faccia con il vetriolo. La segretaria racconta alla polizia che pochi giorni prima il suo principale aveva ricevuto una telefonata da una delle sue amanti, la signora Claire Bebawi, e che dopo la telefonata era apparso piuttosto scosso e decisamente innervosito. La polizia scopre che la signora e partita per Roma dalla Svizzera con il marito proprio quel fatale sabato 16. Il marito pur avendola ripudiata in base alla legge coranica aveva deciso di continuare a vivere con lei e i loro tre figli.
La cosa strana è che arrivati a Rona alle ore 17 i Bebawi se ne sono ripartiti in treno per Napoli già alle 19,20, ma non prima di avere preso alloggio in una pensione vicino via Veneto, vicino cioè all’ufficio di Chourbagi. I Bebawi inoltre da Napoli hanno proseguito per Brindisi per imbarcarsi alla volta di Atene per infine prendere un aereo per Beirut. Ma prima di potersi imbarcare la coppia viene arrestata ad Atene. Come si vede, il caso ha già di per sé tutti gli elementi di un grande giallo internazionale, con epicentro nella vetrina di via Veneto e diramazioni dalla Svizzera al Libano e l’Egitto. Ma esplode alla grande quando i coniugi, come se seguissero una regia decisa a tavolino, cominciano ad accusarsi l’un l’altro, con dovizia di particolari, dell’uccisione del bel Faruk. Un testimone ha visto Yussuf Bebawi in attesa in via Veneto davanti al portone dell’ufficio della Tricotex e Calire Bebawi ha delle bruciature alle mani che possono essere state provocate dal vetriolo.
Ma il testimone si confonde sugli orari e così la stessa versione del Bebawi marito, che ammette di avere accompagnato la moglie in via Lazio da Chourbagi, ma di non essere salito con lei, è messa in crisi dalla moglie, che accusa il marito di avere fatto tutto lui. Il processo viene celebrato a Roma nel ’66, colleziona ben 142 udienze e mette in piazza le testimonianze, spesso scabrose e pruriginose, di un esercito di testimoni: addirittura 120. Viene calcolato perfino il numero dei rapporti sessuali consumati dai due amanti durante la loro relazione. Il dibattimento viene seguito dall’opinione pubblica con interesse spesso spasmodico, in aula si susseguono rivelazioni, retroscena piccanti, scenate coniugali da piazzata partenopea e accuse reciproche sconvolgenti. A difendere i coniugi, almeno uno dei quali è sicuramente l’assassino di Chourbagi, è un principe del foro di Napoli, l’avvocato Giovanni Leone, futuro presidente, democristiano, della Repubblica italiana negli anni ’70, e un principe del foro di Roma, Giovanni Vassalli, futuro ministro della Giustizia.
L’arringa di Leone è un discorso di peso anche politico. Il succo è il seguente: “Pur essendo certo che uno dei due coniugi ha ucciso Faruk Chourbagi, non siamo tuttavia in grado di sapere con certezza quali dei due è il colpevole. Motivo per cui, per evitare che venga condannato un innocente, chiedo alla corte l’assoluzione di entrambi gli imputati”. Detto, fatto. Dopo 30 ore di camera di consiglio, la corte lascia liberi e incensurati entrambi i coniugi. Che però verranno condannati in appello nel ’68 entrambi a 22 anni di carcere, confermato dalla Cassazione nel ’74. Divorziati, ormai però lui vive in Svizzera, industriale del settore dietetici, con i tre figli, e lei fa la guida turistica in Egitto, a Il Cairo. E nell’Italia patria del Diritto la sentenza è rimasta un pezzo di carta privo di seguito. Come si vede, il paragone tra i Misseri e i Bebawi regge sì, ma solo fino a un certo punto.
Nel caso dei Misseri è fuori di ogni dubbio che il cadavere della povera Sarah non lo ha trovato una segretaria o un passante, né la polizia o i carabinieri. A portare gli inquirenti dove le spoglie della ragazza giacevano in posizione fetale nell’acqua di una cisterna diventata il liquido amniotico della Signora Morte, è stato Michele Misseri. Lo zio che con Sarah ci aveva anche pesantemente “provato”. Il ping pong può anche funzionare, ma forse non del tutto. L’Italia patria del Diritto, delle leggi ad personam e degli Azzeccagarbugli, forse si risparmierà una nuova beffa alla Giustizia e un nuovo pugno di mosche. Che banchetterebbero con il cadavere di Sarah.
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