Per denaro e non per salute: la Cassazione condanna il chirurgo che… “opera sempre”

Pubblicato il 8 Aprile 2011 - 14:10 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Stop a tutte quelle operazioni fatte senza nessuna speranza di salvare la vita al paziente. Lo ha deciso la corte di Cassazione stabilendo che gli interventi su pazienti  ”inoperabili” e afflitti da patologie che lasciano loro solo poco tempo di vita, violano il codice deontologico. Anche nel caso in cui i pazienti in questione abbiano autorizzato i medici ad intervenire.

Non si può, insomma, abusare della legittima speranza a vivere un po’ di più: anche questa è una forma di “accanimento terapeutico” in un contesto in cui, vista la situazione, è relativamente facile strappare un consenso. Di fronte alla prospettiva di una morte inevitabile quasi ognuno di noi sarebbe pronto a un tentativo disperato.  Tentativi irragionevoli e spesso, quasi sempre, fatti dietro “generoso” pagamento. Il medico “apre” sapendo già quello che troverà, poi richiude senza aver cambiato quello che non è in suo potere cambiare. Il paziente e i suoi familiari pagano, sperano, e poi accade l’inevitabile. L’illusione è quella di “averci provato”, un po’ come quando, di fronte a diagnosi impietose si parte alla ricerca di santoni, medicamenti portentosi e sperimentazioni improbabili. La realtà è che ci si ritrova nel lutto e più poveri.

La Cassazione, da oggi dice basta confermando la condanna per il reato di omicidio colposo nei confronti di tre medici dell’ospedale San Giovanni di Roma che avevano operato, provocandone la morte, una donna di 43 anni che aveva solo 6 mesi di vita per un tumore al pancreas con metastasi diagnosticate e già diffuse ovunque.

LE REAZIONI La sentenza della Cassazione, secondo cui cui violano il codice deontologico i medici che sottopongono ad interventi pazienti “inoperabili” e afflitti da patologie che lasciano loro solo poco tempo di vita, anche nel caso in cui sia stato proprio il paziente a dare il suo consenso informato all’operazione, evidenzia come ”il consenso informato del paziente sia necessario ma non sufficiente”. Lo afferma il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella. Si tratta, ha commentato Roccella, di una sentenza ”ragionevole”. Il punto, ha sottolineato il sottosegretario, è che ”comincia ad esserci un’idea dell’autodeterminazione del paziente che può finire per ‘squilibrare’ l’alleanza terapeutica medico-paziente, tra l’latro a danno del paziente stesso”.

La sentenza cioè, ha rilevato Roccella, ”ci dice che il consenso informato del paziente non è tutto e che il medico non può essere solo esecutore della volonta’ del paziente, ma ha un margine di responsabilità elevato”. In altre parole, ha proseguito, ”il medico deve agire valutando in modo autonomo e non limitandosi ad eseguire cio’ che il paziente chiede, dal momento che quest’ultimo non dispone di tutti gli strumenti per una valutazione corretta del suo caso clinico”. Emerge dunque, secondo Roccella, ”la delicata questione del rapporto tra consenso informato da parte del paziente e alleanza terapeutica medico-paziente”. Uno ‘squilibrio’ in tale alleanza, ha concluso il sottosegretario, ”potrebbe appunto risolversi paradossalmente in un danno per il paziente stesso”.