Pesta e picchia da Roma a Milano: c’è un nemico ed è il prossimo tuo

Roma. La stazione Anagnina della metro A

C’è un nemico che si aggira in città: è il prossimo tuo. Quello “normale” che ti cammina a fianco, quello che ti precede nella fila, quello che passeggia sul marciapiede. E’ uno normale, non puoi riconoscerlo, non indossa nessuna “divisa” da nemico. Puoi solo sapere che alta, altissima è la probabilità che il prossimo tuo ti sia ostile. Raramente trasforma la sua ostilità in aggressione e violenza, ma può sempre farlo, è questo che devi sapere. Non ogni lite o contrasto diventa ogni giorno e ovunque un fatto di sangue e di cronaca, di quelli che finiscono sui giornali. Anzi è raro che scorra il sangue, ma la rabbia, la diffidenza e la reciproca ostilità fluiscono libere e abbondanti, sono la regola, l’umore di massa. Milano e Roma, quel che è successo a Milano e Roma in solo due giorni è una sequenza casuale ma esplicita, racconta questa triste storia, ha portato sui giornali quel che tutti avvertiamo, viviamo, subiamo e purtroppo condividiamo ogni giorno: ciascuno è nemico, suo malgrado o per scelta, del prossimo suo.

A Milano è una banda, di piazza e di quartiere. Largo Caccia Dominioni, quartiere Antonini: lo presidia la “banda”, un gruppo che “marca” il territorio. Nei giorni qualsiasi, nei tanti giorni qualsiasi sono dei qualsiasi giovani senza lode e senza infamia. Non hanno, non espongono qualità “criminali”, però hanno, rispettano e impongono una “legge” tutta loro, la “legge” che dice che quella è terra, zona loro. Per dimostrarlo che è “casa loro”, “roba loro” nei giorni qualsiasi la banda si nutre di scherzi innocui, al massimo qualche lazzo volgare. Niente di più, niente di meno: è il loro “linguaggio”, quello con cui si “marca” la terra. Poi arriva per caso un giorno che qualsiasi non è: qualcuno invade, profana il “territorio”. Lo sfregio al controllo, al dominio della piazza e del marciapiede arriva sotto forma di un taxi che investe e uccide Joe il cocker. No, non è un nomignolo per uno della banda, è proprio solo e soltanto un cocker, un cane che finisce sotto le ruote anche perché nessuno lo teneva al guinzaglio. Per la banda non è un incidente o, anche se lo è, non importa. E’ uno sgarro al controllo. Il taxista, Luca Massari, scende dall’auto e forse fa per scusarsi e forse no. Non importa cosa faccia, è un “profanatore”, non della vita del povero cane ma della “roba” della banda, appunto la strada e la piazza. Michel Morris Ciavarella, 31 anni, lo guarda il taxista, lo guarda e vede, sente che gli “fa venire i nervi” come poi dirà alla polizia. Chi “fa venire i nervi” merita di essere colpito e Ciavarella colpisce.

Ma non finisce lì, la banda sente l’impulso e il dovere di trasformarsi in branco. Altri due, altri tre colpiscono il taxista mentre è ancora in piedi, mentre è già in terra. E’ un rituale antico: ogni membro della comunità deve colpire perché nessuno sia colpevole e tutti innocenti, la “sentenza” di punizione deve essere impartita collettivamente perché sia valida, vigente e ammaestrante. Soprattutto l’esecuzione della sentenza ribadisce il vincolo di possesso della terra alla banda e la comunione interna alla banda. Questo è quel che conta, per questo, d’istinto e di cultura, la banda accetta di farsi branco. Il taxista finisce in coma, è solo questo “l’incidente”, la punizione è la regola, il coma di un uomo è il danno collaterale non voluto e non cercato ma che ci “può stare”. Non è un “comportamento d’impeto”, quello che la cronaca indulgente chiama “raptus”, è una scelta metodica e pianificata. Infatti quando arriva una telecamera, quella del Tg de La7, uno della banda parte dinoccolato e svelto e la oscura con un giornale. E quando arriva il fotografo Maurizio Maule la banda impugna il bastone e lo manda all’ospedale. Voleva fotografare una macchina appena data alle fiamme. Era la macchina di uno che aveva parlato con la tv e con la polizia, uno che aveva detto che il taxista non correva “a cento all’ora” e che era stato pestato dal gruppo. Secondo la legge della banda, un “infame” cui bruciare la macchina, non tanto e non solo per farlo stare zitto quanto per ristabilire il possesso e dominio del territorio. Territorio dove il prossimo tuo, se non obbedisce, rispetta, omaggia la banda, è straniero, quindi nulla, un nulla umano prima ancora che un nemico.

A Roma Alessio Burtone sta per salire sulla metropolitana alla stazione Anagnina. Alessio Burtone nei giorni qualsiasi, nei giorni di sempre è uno normale. “Un lavoratore” dirà poi il suo avvocato Fabrizio Gallo. “Un lavoratore”, come fosse un salvacondotto, una patente per ogni comportamento, per ogni atto. Non c’entra, non vale nulla che sia “un lavoratore”, ma di certo il ventenne Alessio non è un cattivo, tanto meno un malvagio. Però cammina per il mondo “incattivito”. Non sa di essere tale, non lo ammetterebbe mai, in perfetta buona fede. Ma “sente” il prossimo suo come minaccia, ostacolo, fastidio, come qualcosa di ostile. In un giorno che qualsiasi non è, il prossimo di Alessio è una donna che lo intralcia, gli sta tra i piedi e forse glieli pesta. Litigano, si contendono uno spazio che per entrambi è subito “spazio vitale”, questione di primazia. La donna forse insulta e quindi “merita” un tentativo di testata al volto da parte di Alessio. Il tentativo quasi fallisce, allora la donna non raggiunta dal colpo viene inseguita da uno sputo. La donna fa partire uno schiaffo. E quindi “merita” il pugno che la stende e la manda in ospedale a lottare per la vita. Dirà Alessio di “non essersi reso conto”, dirà la verità: anche per lui il rischio di uccidere è danno collaterale non voluto. Lui voleva solo insegnare al prossimo suo a non azzardarsi a sfidare il suo di “territorio”.

Milano e poi Roma, due volte dove corre il sangue, sangue che finisce sui giornali e in tv. Due sole volte. Ma ogni giorno dovunque decine, centinaia di migliaia di uomini e donne che si “urtano”, si misurano, si sfidano con reciproca ostilità. Ripensate a quante volte sguardi ostili si incrociano da un abitacolo all’altro di una macchina nel traffico. O sui marciapiedi, nelle piazze, negli uffici. Forse non è “homo homini lupus” di cui leggevamo a scuola, quando a scuola si leggeva. Ma di certo è: fai al prossimo tuo quel che non vorresti fosse fatto a te, fallo prima che lui lo faccia a te. Intimidiscilo, “scuriscilo”, “imbruttiscilo” come si dice in gergo. E’ il prossimo tuo, quindi un avversario da disarmare, prima che diventi un nemico da abbattere. E la chiamiamo “società civile”.

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