Thyssen, fu omicidio volontario: 16 anni all’ad, condannati tutti i dirigenti

Pubblicato il 16 Aprile 2011 - 00:50 OLTRE 6 MESI FA

TORINO- Dal 15 aprile una tragedia sul lavoro diventa un omicidio volontario. Il capitano di industria, l’imprenditore, il dirigente che trascura le misure di sicurezza in azienda può essere condannato come fosse un bandito in fuga che spara uccidendo passanti. E’ questo che dice la sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise di Torino alla fine del processo per i sette operai morti nell’incendio alla Thyssenkrupp del 6 dicembre 2007.

La giustizia, con i sei responsabili della multinazionale dell’acciaio chiamati sul banco degli imputati, ha avuto la mano pesante. Per l’amministratore delegato, Herald Espenhahn, la condanna è a sedici anni e sei mesi di carcere. Su di lui pesava l’accusa più grave, l’omicidio volontario ”con dolo eventuale”: ha accettato il rischio di provocare un terribile incidente perché, sapendo che lo stabilimento di Torino avrebbe chiuso nel giro di pochi mesi, ha deciso di rinviare l’adozione di alcuni provvedimenti sulla linea 5, quella che poi andò a fuoco.

Un incendio che all’inizio sembrava piccino, controllabile, uno dei tanti focherelli che si accendono quando si lavora l’acciaio. Poi, però, ci fu un’ esplosione e un’ ‘onda anomala” di fiamme (la testimonianza è dell’unico sopravvissuto, Antonio Boccuzzi) ghermì le sette vittime.

L’inchiesta accertò lo ”stato di abbandono” in cui versava lo stabilimento: estintori scarichi o malfunzionanti, personale ridotto all’osso, sudiciume, almeno 114 violazioni delle norme sulla sicurezza. Per gli altri dirigenti, accusati solo di omicidio colposo (con ”colpa cosciente”), le pene sono solo leggermente più basse: 13 anni e mezzo per Gerald Priegnitz, Raffaele Salerno, Marco Pucci e Cosimo Cafueri, 10 anni e 10 mesi per Daniele Moroni.

La Corte d’Assise presieduta da Maria Iannibelli (due giudici togati e sei popolari) ha accolto in pieno tutte le richieste della Procura, sposando la tesi della squadra composta dai pm Raffaele Guariniello, Laura Longo e Francesca Traverso. Una tesi innovativa: era la prima volta che si contestava l’omicidio volontario per un incidente sul lavoro. ”E’ il salto piu’ grande di sempre nella giurisprudenza sulla materia”, commenta Guariniello, che è affiancato, oltre che dalle due colleghe, anche dal procuratore capo, Gian Carlo Caselli, che ha ascoltato la lettura del lunghissimo dispositivo.

”Questa pronuncia – aggiunge il pm – deve fare sperare i lavoratori e far pensare gli imprenditori. Se sono contento? Una condanna non è una vittoria e non è una festa. Diciamo che se potessimo evitare processi come questo sarebbe meglio”. L’ultimo pensiero Guariniello lo dedica a Giorgio Napolitano, che tante volte si è espresso sulla piaga degli infortuni sul lavoro: ”La sentenza – dice – è un regalo che voglio fare al Presidente della Repubblica”.

”Non si è mai vista una cosa del genere” è una frase che sfugge anche all’avvocato Cesare Zaccone, del pool difensivo, ma con ben altro stato d’animo. Per allontanare lo spettro dell’ omicidio volontario e ricondurre la vicenda nell’ alveo dell’ omicidio colposo erano scesi in campo fior di luminari, primo fra gli altri il professor Franco Coppi, penalisti di grido come Andrea Garaventa, che aveva parlato di ”processo politico”, o Nicoletta Garaventa, che aveva lamentato la ”gogna mediatica” e il ”desiderio di vendetta”.

Non è servito. I giudici, con la Thyssenkrupp, sono stati severissimi: hanno persino stabilito che le attenuanti (come quella del risarcimento del danno ai parenti delle vittime) hanno minor valore rispetto alle aggravanti. Alle innumerevoli parti civili (la Regione, la Provincia, il Comune, i sindacati, una onlus e una sfilza di operai) sono andati risarcimenti nell’ordine delle decine di milioni di euro. E anche la multinazionale, chiamata in causa come persona giuridica, deve pagare: un milione di sanzione pecuniaria, l’esclusione da agevolazioni e sovvenzioni pubbliche per sei mesi, il divieto di farsi pubblicita’ per lo stesso periodo, la pubblicazione della sentenza sui quotidiani e l’affissione all’albo del Comune di Terni, dove c’e’ la sede principale. Piu’ la confisca di 800 mila euro: il prezzo del dispositivo antincendio che bisognava installare sulla linea 5.