Alzheimer: un farmaco anti-amiloide sembra ritardare l'insorgenza dei sintomi (blitzquotidiano.it)
In uno studio recente, il farmaco anti-amiloide gantenerumab ha mostrato una riduzione del rischio di sviluppare Alzheimer fino al 50% nei pazienti con predisposizione genetica.
Gli scienziati si sono concentrati su un gruppo specifico di individui affetti da Alzheimer a insorgenza precoce ereditaria, una forma della patologia causata da mutazioni genetiche che portano all’accumulo della proteina amiloide-beta nel cervello. Questi pazienti hanno un rischio quasi certo di sviluppare la malattia in giovane età, fornendo così un modello ideale per testare l’efficacia del farmaco.
L’Alzheimer è una malattia complessa e, nonostante anni di ricerca, le sue cause non sono ancora del tutto comprese. Tuttavia, molti scienziati ritengono che la proteina amiloide-beta giochi un ruolo cruciale.
Nel cervello sano, l’amiloide-beta è presente in quantità controllate, ma nei pazienti affetti da Alzheimer tende ad aggregarsi, formando placche che interferiscono con la normale funzione neuronale. Questa teoria, nota come “ipotesi dell’amiloide”, ha guidato la ricerca farmacologica verso lo sviluppo di terapie che mirano a ridurre o prevenire la formazione di queste placche.
Il gantenerumab è un anticorpo monoclonale progettato per legarsi all’amiloide-beta e facilitarne la rimozione dal cervello. I risultati della ricerca suggeriscono che il farmaco può rallentare o addirittura prevenire la progressione della malattia in soggetti ad alto rischio.
La sperimentazione su gantenerumab ha coinvolto pazienti con Alzheimer a insorgenza precoce ereditaria. Inizialmente, il farmaco è stato somministrato a persone che non presentavano ancora sintomi evidenti, ma che erano geneticamente predisposte alla malattia.
Lo studio è stato condotto per diversi anni, con un primo ciclo di osservazione terminato nel 2020. I risultati hanno mostrato che il farmaco riduceva significativamente i livelli di amiloide-beta nel cervello, ma non era chiaro se ciò si traducesse in un beneficio cognitivo misurabile. Per questo motivo, la ricerca è stata prolungata e il dosaggio del farmaco aumentato.
I dati più recenti rivelano che, per alcuni pazienti trattati per almeno otto anni, il rischio di sviluppare sintomi clinici di Alzheimer è stato dimezzato. Questo risultato è particolarmente significativo, poiché dimostra che la rimozione delle placche amiloidi potrebbe effettivamente tradursi in una protezione dal declino cognitivo.
Sebbene lo studio abbia riguardato un gruppo ristretto di persone con Alzheimer ereditario, i risultati potrebbero avere ripercussioni anche per la forma più comune della malattia, quella a insorgenza tardiva.
Gli esperti ritengono che il processo neurodegenerativo sia simile nei due tipi di Alzheimer, suggerendo che farmaci come il gantenerumab potrebbero essere efficaci anche per i pazienti con forme sporadiche della patologia. Tuttavia, per confermare questa ipotesi, sono necessarie ulteriori ricerche su larga scala, con campioni più diversificati e periodi di osservazione più lunghi.
Nonostante le promettenti scoperte, il trattamento con gantenerumab non è privo di limiti e problematiche. Uno degli aspetti più critici riguarda la sicurezza del farmaco: alcuni pazienti hanno manifestato effetti collaterali, tra cui anomalie cerebrali rilevate tramite risonanza magnetica, come microemorragie o accumulo di liquido nel cervello.
Questi effetti indesiderati, noti come ARIA (amyloid-related imaging abnormalities), sono stati riscontrati anche con altri farmaci anti-amiloide attualmente in sperimentazione, come aducanumab e lecanemab. Anche se nella maggior parte dei casi i sintomi si sono risolti con l’interruzione della terapia, la loro incidenza rappresenta una sfida per l’approvazione e la diffusione su larga scala di questi farmaci.
Un’altra questione aperta riguarda la durata dell’efficacia: non è ancora chiaro per quanto tempo i pazienti possano rimanere asintomatici e se il farmaco garantisca una protezione a lungo termine. Alcuni ricercatori suggeriscono che la terapia dovrà essere somministrata in modo continuativo per mantenere i suoi effetti, il che potrebbe comportare costi elevati e difficoltà logistiche.