Calvino, Tolkien, due mostre e una domanda. E se una notte d’inverno un visconte dimezzato trovasse l’anello, e mettendoselo al dito diventasse un hobbit invisibile?
E se nella Terra di Mezzo un orco si arrampicasse su di un albero per non volerne più discendere per tutta la vita? Probabilmente né Calvino e né Tolkien si sentirebbero offesi ma forse un pezzo di politica avrebbe qualcosa da obiettare.
A Roma, alle Scuderie del Quirinale, è stata allestita la bellissima mostra “Favoloso Calvino” per i cent’anni dalla nascita dello scrittore tra i più importanti del Novecento italiano. Mentre alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, sempre a Roma, c’è la grande mostra “Tolkien” a cinquant’anni dalla scomparsa del creatore della celebre epopea della Terra di Mezzo.
Sembrerebbe una sfida a suon di parole, un duello in punta di penna, due mondi immaginifici che si marcano stretti, la realtà che si spiega nella fantasia. Ma cosa si nasconde nella letteratura quando la politica la strattona da una parte e dall’altra?
Chissà cosa si direbbero su questo tema Marcovaldo e Frodo Baggins seduti davanti ad una tazza di caffè; probabilmente parlerebbero di altro, della grande città industriale di Calvino o della Contea di Tolkien.
Politica e letteratura si sono da sempre inseguite. Gli esempi abbondano. Ma la rappresentazione che si ha è di due fragole identiche che sanno una di mela e l’altra di ciliegia.
Questa unicità le tiene vicine e lontane, si cercano e si perdono nel medesimo istante. Sia Calvino che Tolkien sono stati anche questo, hanno accumulato significati ed interpretazioni, madri e padri affaccendati a rivendicarne la genitorialità. Ma, nella loro opera, emerge la capacità di andare oltre se stessi, di costruire una narrazione ideale verso qualcosa di diverso dalla fonte che l’ha generata.
Un mondo capovolto su di un altro che sembra non coglierne la presenza. Se la letteratura è anche questo, allora la politica può solo apparire come un’ombra che tenta di oscurarla.
Calvino e Tolkien forse ne erano consapevoli. Nei loro mondi letterari infatti la politica è solo ago e filo che cuce le azioni alle trame del destino.
In questo li accomuna l’esigenza di costruire una personale visione della realtà riletta con i propri occhi, ma che nelle pagine dei loro libri diventa costrutto dell’anima.
Da questa prospettiva il Barone Rampante che sale sull’albero non è poi così diverso da Gandalf prigioniero in cima alla torre nera di Isengard, come non lo è forse, nella finzione letteraria dei due scrittori, un albero da una torre.
C’è sempre una spinta in alto, verso il cielo. Ma sono anche le profondità a manifestarsi, perché radici e fondamenta hanno un loro significato simbolico preciso, appartengono alla terra, il ritorno a casa dopo un lungo viaggio.
Cielo e terra, andata e ritorno, è la circolarità nella quale questi due scrittori dipanano la loro idea di letteratura. Calvino e Tolkien non sono la stessa cosa, o almeno non lo sono stati per la politica che li ha corteggiati negli anni.
Però lo diventano facilmente se spostiamo la discussione su di un altro piano, ovvero sulla capacità della loro scrittura di elaborare mondi possibili.
C’è un divenire continuo nelle parole che utilizzano, al di là delle biografie personali, affiancano identicamente lo spirito del loro tempo, di quel Novecento che a diverso modo hanno vissuto ed interpretato.
Il martedì sera Tolkien entrava con la pipa in bocca all’Eagle and Child, un pub di Oxford. Ad aspettarlo, per discutere di letteratura, un gruppo di suoi colleghi di Università, tra i quali anche C. S. Lewis, quello che scrisse “Le Cronache di Narnia”.
Calvino invece partecipava alle celebri «riunioni del mercoledì» di casa Einaudi, e con lui Giulio Bollati, Cesare Pavese, Elio Vittorini, Luciano Foà, Massimo Mila, Natalia Ginzburg e molti altri ancora.
Luoghi e tempi diversi tra di loro, dove probabilmente però si respirava la stessa atmosfera, quella passione irrefrenabile per la letteratura, le storie del mondo per il mondo.
Ed è innegabile che maneggiando con le parole facessero anche politica. Perché l’inevitabile destino di chi fissa confini è di valicarli. Ed è questo il significato della letteratura, trovare una via d’uscita, immaginare una strada larga anche se la realtà si restringe.
Il Novecento è stato il secolo delle Guerre Mondiali. Tolkien partecipò alla Prima arruolandosi nella fanteria inglese,
Calvino invece fece la Resistenza nella Seconda. Hanno entrambi conosciuto il senso profondo del dolore, una sottrazione continua.
Se la politica è stata nelle loro opere deve essere intesa in questo senso, la letteratura che manifesta l’esatto suo contrario, proprio come nei paesaggi che hanno immaginato, la narrazione della vita e della morte.
E non importa se l’imbarbarimento dei tempi morde le loro pagine. Calvino e Tolkien rimangono dentro all’esattezza di quel che hanno scritto, mentre la politica che li strattona non supera il tempo di un passo.
Oggi le due mostre romane riportano alcuni di questi temi al centro del dibattito pubblico. La destra celebra Tolkien, mentre la sinistra guarda a Calvino. Ad ognuno il suo.
Ma nelle pieghe della discussione, ci si domanda dove stia il senso della spartizione letteraria.
Nelle sue “Lezioni americane”, pubblicate postume nel 1988, Calvino allacciava il Novecento al nuovo millennio scrivendo che la sua fiducia nel futuro della letteratura consisteva “nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare”.
E forse sta proprio in questa specificità che la politica trova l’appiglio per cannibalizzarla. La spartizione letteraria è il modo di riempire vuoti che la politica non sa colmare, “esternalizza” la produzione del proprio paradigma culturale non riuscendo più ad immaginarne uno.
Però non è questione di oggi. Letteratura e politica è un binomio di cemento, fortificato dal tempo, dalle storie che l’hanno alimentato, un fenomeno complesso, difficile da interpretare che muove da ragioni antiche ed arriva ai giorni nostri marciando come un plotone di esecuzione.
Fantasia, realtà, allineamento e disallineamento sono le articolazioni dalle quali questo intreccio ha forgiato la propria resistenza, perché la forza delle parole sta alla politica come una mummia alla cultura egizia però questo non giustifica l’ingranaggio nel quale la letteratura rimane impigliata.
Resta quindi invariato il dubbio che legittimamente si interroga sulla validità di un’opera letteraria ai fini della lotta politica, perché molte delle ideologie in nome delle quali si sono consumate queste appropriazioni avevano ed hanno al loro interno proprio quei virus contro i quali la letteratura combatte da sempre.
Ed allora si comprende bene il senso di quell’unicità che “le tiene vicine e lontane” come scritto all’inizio di questo articolo.
Visitate le due mostre, leggete Calvino, leggete Tolkien, immergetevi nei loro mondi e difendetevi dai miasmi della politica. I personaggi che imparerete ad amare trovano linfa anche nelle nostre esperienze e passioni, provate a stargli accanto, nelle loro avventure.
Animare un cavaliere inesistente dentro una corazza o cercare di distruggere un anello per sconfiggere il male è letteratura che arricchisce la politica; al contrario, la politica, quando prova a piegare la letteratura, smembra l’archetipo che la genera, il pendolo immobile che segna il tempo della fantasia.
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