“L’Italia non sa reagire, è senza desiderio, è un’ameba”: il rapporto disastroso del Censis

Secondo il Censis in un modo o nell’altro l’Italia ha resistito alla fase peggiore della crisi economica, nonostante un livello di crescita più basso rispetto agli altri grandi Paesi europei e ad una disoccupazione ancora presente ad un livello troppo elevato. Tuttavia, anche se le difficoltà contingenti sono state in parte superate, non c’è di che essere ottimisti: “Anche se ripartisse la marcia dello sviluppo, la nostra società non avrebbe lo spessore e il vigore adeguati alle sfide che dobbiamo affrontare. Nel Paese sono evidenti manifestazioni di fragilità sia personali sia di massa, comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattivi, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro”.

È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo 44esimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia del 2010 viene rappresentata di fatto come un’”ameba” senza spina dorsale che stenta a prendere coscienza del proprio potenziale e a compiere quello scatto di orgoglio che le consentirebbe di riprendere forza e di guardare avanti. Le motivazioni, secondo i ricercatori, derivano da diversi fattori: il venir meno dei valori alti che hanno caratterizzato i decenni passati, a partire dalla spinta emotiva ricevuta in eredità dal risorgimento, la delusione per un’economia di mercato che ha disatteso molte speranze, la mancanza di fiducia nella classe politica e nella sempre più marcata verticalizzazione di quest’ultima.

Gli italiani soffrono di un vero e proprio “calo di desiderio” che si manifesta in ogni aspetto della loro vita: appagati i traguardi che ci si prefiggeva in passato (dalla casa di proprietà che oggi è una realtà per la maggior parte delle famiglie alla possibilità di andare in vacanza o possedere beni) ci si confronta oggi con la frenetica rincorsa ad oggetti “in realtà mai desiderati”, come l’ultimo modello di telefonino, magari il quinto o il sesto cambiato in pochi anni. “Tornare a desiderare – fa notare il Censis – è la virtù civile necessaria per riattivare una società troppo appagata ed appiattita”. Non a caso tra i segnali in controtendenza vengono citati imprenditori e giovani che lavorano o studiano all’estero, che hanno riversato la loro forma di desiderio nel confronto e nella competitività internazionale.

I dati economici, del resto, non sono confortanti. In Italia, patria della piccola impresa, da qualche tempo sta venendo meno il lavoro autonomo, che ovunque nel mondo è stato il motore che ha consentito l’uscita dalla crisi: dal 2004 al 2009 c’è stato un saldo negativo di 437 mila imprenditori e lavoratori in proprio, con un calo percentuale del 7,6%. E c’è un aumento della disoccupazione tra i giovani che nei primi due trimestri è stato del 5,9%, a fronte di una riduzione media che nel resto d’Europa è stata dello 0,9%. Nel nostro Paese sono 2.242.000 le persone tra i 15 e i 34 anni che non studiano, non lavorano e neppure cercano un impiego, anche per la propensione – confermata da più della metà dei giovani italiani in questa fascia di età – a non accettare lavori considerati faticosi o di scarso prestigio.

L’appiattimento in campo economico va ricercato, secondo il Censis, anche in altri fattori e, soprattutto, nel confronto con quanto accade all’estero. Tra il 2000 e il 2009 il tasso di crescita dell’economia italiana è stato più basso che in Germania, Francia e Regno Unito. Il made in Italy ha perso lo 0,3% su base mondiale, attestandosi su una quota di mercato globale del 3,5%. E a perdere terreno sono stati i comparti a maggiore tasso di specializzazione, dalle calzature ai mobili, che fino ad oggi avevano rappresentato un plus per le nostre esportazioni. E non è tutto: l’Italia è il Paese europeo con il più basso ricorso a orari flessibili (solo l’11% delle aziende con più di 10 addetti utilizza turni di notte, solo il 14% fa ricorso a lavoro domenicale e il 38% a quello del sabato. Ed è inoltre, tra le nazioni del vecchio continente, quella in cui meno si adottano modelli di partecipazione dei lavoratori agli utili dell’azienda: ciò avviene solo nel 3% del totale, contro una media europea del 14.

E poi i mali tutti (o soprattutto) italiani. A partire dall’economia in nero, basata su un’evasione fiscale da 100 miliardi di euro all’anno, che drena risorse pari al 4,7% del Pil. Tra il 2007 e il 2008 l’economia irregolare si stima sia cresciuta del 3,3%. Un’indagine del Censis stesso dice che gli italiani ne sono in parte consapevoli, che il 44,4% di loro la considera il male principale della nostra economia e che più della metà degli interpellati sarebbe favorevole ad un aumento dei controlli anti-evasione. Tuttavia, più di un terzo degli italiani ammette candidamente di non richiedere scontrini o fatture a esercenti e professionisti, soprattutto se questo consente loro di risparmiare qualche euro. Infine c’è il capitolo della criminalità organizzata che in Sicilia, Campania, Calabria e Puglia – che insieme registrano 672 comuni i cui risultano presenti sodalizi criminali che la fanno da padroni – occupa stabilmente più del 54% del territorio totale.

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