Si assiste da tempo a una lenta erosione del ceto medio italiano, ma ora il fenomeno è accelerato, e si rischia di perdere il pilastro della nostra società e il fondamento della nostra economia. Oggi il 60,5% degli italiani si sente di appartenere al ceto medio. Prima ancora che una questione reddituale, essere ceto medio è una condizione di identità e status sociale percepito. Ma se nel passato aureo dello sviluppo italiano essere ceto medio significava sentirsi parte di un movimento collettivo in ascesa, oggi prevale la percezione di un declassamento socio-economico: il 48,8% vive il timore di una regressione nella scala sociale e il 74,4% ha la convinzione di un concreto blocco della mobilità verso l’alto.
Questi i dati che emergono dal Rapporto CIDA-Censis “Il valore del ceto medio per l’economia e la società” commissionato da CIDA, la Confederazione Italiana dei Dirigenti e delle Alte Professionalità, e presentati oggi durante un convegno tenutosi alla Camera dei Deputati, aperto con i saluti istituzionali del Vice Presidente del Consiglio e Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale Antonio Tajani.
“L’obiettivo – come ha spiegato il Presidente di CIDA, Stefano Cuzzilla – è comprendere qual è la percezione del Paese rispetto a quella classe intermedia, né ricca né popolare, che dal “Miracolo economico” in poi ha rappresentato il nostro cuore produttivo, e dare urgentemente voce a quasi metà della popolazione che sta vivendo una fase di “declassamento” e non è adeguatamente ascoltata”.
Questo nuovo periodo è dominato da una paura palpabile del blocco della mobilità sociale “non solo per i redditi più bassi – come specificato da Cuzzilla – ma anche per le fasce di reddito fino a 50.000 euro e oltre, che sono quelle che trascinano consumi e investimenti. Certamente un netto distacco dall’ottimismo e dalle percezioni collettive di opportunità che un tempo erano diffuse tra noi. In fondo la parabola del ceto medio è la parabola vissuta dalla maggioranza delle famiglie italiane in più generazioni, passata da alti ritmi di crescita del Pil al suo rallentamento”.
I dati sono emblematici: il Pil italiano è cresciuto del +41,6 tra il 1970 e il 1980, del + 25% nel decennio successivo, per poi proseguire nel lento declino, che segna solo un +17,9% negli anni Novanta, fino a crollare al +3,5% nel quadriennio 2019 – 2023. Questo downsizing economico che coinvolge il ceto medio non è un fenomeno solo italiano ma riguarda l’insieme dei Paesi più avanzati, dagli Usa a gran parte dei Paesi UE. Globalizzazione e cambiamenti tecnologici hanno spostato l’asse della creazione di reddito verso economie emergenti, svuotando le strutture produttive dei Paesi più avanzati che hanno perso occupazione di qualità, in termini di retribuzione e tutele. Eloquente il dato sulle famiglie: in un ventennio, dal 2001 al 2021 il reddito pro-capite delle famiglie italiane è sceso del 7,7%, mentre la media europea saliva di quasi 10 punti percentuali, con le famiglie tedesche a +7,3% e quelle francesi a +9,9%.
Ciò spiega perché il presente e il futuro sono segnati dalla paura del declassamento, da una propensione a difendere il proprio status quo più che a migliorarsi, con la convinzione che l’andamento del benessere nel tempo sia decrescente. Un’idea radicata nella pancia sociale del Paese, condivisa in pieno dalla maggioranza netta di persone che si sente parte del ceto medio: il 66,6% degli italiani (il 65,7% del ceto medio) è convinto che le generazioni passate vivevano meglio e il 76,1% degli italiani (75,1% del ceto medio) ritiene che le generazioni future staranno peggio di quelle attuali.
“A me preoccupa soprattutto questa assenza di speranza nel futuro – ha sottolineato con forza Cuzzilla – se le aspettative calano, se non si crede più di poter migliorare la propria condizione, se si ritiene che le generazioni future staranno peggio di quelle attuali, sarà il Paese intero a pagare un prezzo altissimo. È nostra responsabilità, come manager e come società civile, rispondere a questo cambiamento e intercettarne i bisogni prima che sia troppo tardi. Significa investire per avere un sistema costruito sulla triade più alto benessere economico – più alti consumi – aspettative crescenti. Mentre oggi siamo in questa situazione: meno benessere economico – consumi ridotti – aspettative pessimistiche. Solo valorizzando l’impegno nel lavoro, il talento, le conoscenze e le competenze, è possibile riattivare i meccanismi di crescita.”
Ne è convinto il 57,9% degli italiani, per i quali impegno e capacità non sono adeguatamente premiati (54,9% del ceto medio). Inoltre, l’81% pensa sia giusto che chi lavora di più guadagni di più (80% del ceto medio), e il 73,7% ritiene legittimo e giusto che una persona talentuosa e capace possa diventare ricca (75% del ceto medio). Inoltre di fronte alle complessità del contemporaneo, a processi epocali di transizione relativi alle nuove tecnologie o alla sostenibilità, l’87,1% degli italiani è convinto che solo un innesto massiccio e capillare di culture e pratiche manageriali potrà consentire quell’upgrading di funzionalità che oggi è richiesto al sistema Paese Italia. Per l’82,7% il bravo manager nelle aziende e negli enti è colui che sa trascinare e motivare gli altri. Per l’84,4% degli italiani una più alta efficienza di imprese e Pubblica Amministrazione richiede dirigenti fortemente orientati a premiare i più meritevoli ad ogni livello.
In fondo già oggi il valore dei dirigenti si vede in molti ambiti complessi: l’85,8% delle famiglie è convinto che, se una scuola è ben gestita sul piano organizzativo, è più facile che garantisca anche buone performance didattiche e il 62,2% crede che avere manager come dirigenti nel servizio sanitario è un fattore di garanzia per i pazienti.
Ai membri del Parlamento che hanno partecipato – l’On. Annarita Patriarca, l’On. Paolo Barelli, l’On. Maria Elena Boschi, il Sen. Antonio Misiani e l’On. Marta Schifone – il Presidente di CIDA ha illustrato le proposte della Confederazione e spiegato l’urgenza di una presa di consapevolezza della situazione: “Bisogna invertire la tendenza che finora ha costantemente privilegiato misure volte all’assistenzialismo attingendo risorse dal ceto medio, principalmente pensionati e lavoratori dipendenti. Si tratta di una sfida strutturale, la stessa funzione del fisco – ha concluso Cuzzilla – andrebbe capovolta, trasformando la leva fiscale: invece che ostacolo, dovrebbe incentivare chi investe, chi crea lavoro, chi eroga servizi, chi ha talento e si impegna. È quello che emerge anche dalla ricerca. Ben l’80,6% degli italiani ritiene che il sistema fiscale dovrebbe premiare chi crea impresa, lavoro, opportunità”.
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