Come parlava un eroe del Risorgimento: Nino Bixio in diretta, Emanuele Celesia racconta - Blitzquotidiano.it
Nino Bixio, quello cui Garibaldi disse “O si fa l’Italia o si muore”, chiese al re Vittorio Emanuele II, senza ottenerlo, il comando della flotta italiana schierata contro l’Austria nella guerra del 1866.
Al plebeo genovese Bixio (la x si deve pronunciare sg) fu preferito il nobile piemontese Persano e così a Lissa fini con la sonora sconfitta che tutti studiamo scuola.
La vicenda, affondata nella palude della storia, riemerge con la pubblicazione del libro “Linguaggio e proverbi marinareschi” di Emanuele Celesia. Il libro fu pubblicato originariamente nel 1884. Nel settembre 2024 è stato riproposto su Amazon (la versione Kindle costa 3,90 euro).
Celesia fu un personaggio importante della vita politica e culturale di Genova e del Risorgimento, lui stesso patriota e rivoluzionario, incarcerato dai piemontesi nel 1848. A Emanuele Celesia fu intitolata per decenni una scuola elementare in Castelletto, zona che fu teatro di scontri e feroce repressione piemontese nel 1849. Ora è diventata un anonimo Istituto Comprensivo. A Celesia è dedicata una strada nei pressi del Policlinico Gemelli. Ed è anche dedicato un ampio profilo dalla enciclopedia Treccani.
Nel libro “Linguaggio e proverbi marinareschi” Emanuele Celesia riporta dialoghi con importanti personaggi del mondo genovese al tempo della formazione della nuova Italia unita.
La lettura è emozionante perché emerge in presa diretta la figura di Bixio, nome noto dai libri di scuola e per una recente e futilie polemica siculo- sinistra sulla strage di Bronte (ducato di proprietà degli eredi di Nelson).
Basta un’occhiata a Wikipedia o alla Treccani per rendersi conto dello straordinario personaggio che fu Nino Bixio.
Nato nel 1821 in Castelletto, imbarcato a 13 anni come mozzo dalla matrigna che non sopportava il suo carattere ribelle, arruolato nella Marina sabauda, marinaio su una nave americana, illuminato da un incontro con Mazzini a Parigi, navigante, militare, marinaio regio, a 39 anni fu tra i principali luogotenenti di Garibaldi nella spedizione dei Mille che determinò l’unità d’Italia. Fu marito appassionato e fedelissimo di Adelaide, sua nipote di 14 anni più giovane, figlia di una sua sorella.
Deputato e senatore, riprese le armi nel 1866 partecipando alla terza guerra di indipendenza e alla presa di Roma nel 1970.
A 50 anni, nel ‘71, l’Esercito lo collocò a riposo e Nino Bixio riprese il mare, convinto della fondamentale importanza per l’Italia di partecipare alla apertura di nuove rotte verso l’Estremo Oriente. Convinto anche che il futuro era nei grandi bastimenti a vapore, in questo in totale contrasto con gli armatori di Camogli, dai mille bianchi velieri, per i quali non c’era niente di più conveniente del vento, l’eolico del tempo, fornito gratis dal buon Dio
Non fu fortunato. Nel 1873, a soli 52 anni di età, si beccò il colera durante una sosta nell’isola di Sumatra, in Indonesia, è lì mori.
Giuseppe Cesare Abba descrive così Bixio nel suo Da Quarto al Volturno, sull’impresa dei Mille.
“L’aria, gli atti, il tono suo di comandare, lo mostrano uomo che in sè ne ha per dieci. A capo scoperto, scamiciato, iracondo, sta sul castello come schiacciasse un nemico. L’occhio fulmina per tutto. Si vede che sa far di tutto da sè. Forse in mezzo all’oceano, abbandonato su questa nave, lui solo, basterebbe a cavarsela. Il suo profilo taglia come una sciabolata; se aggrotta le ciglia, ognuno cerca di farsi piccino; visto di fronte non si regge al suo sguardo. Eppure, a tratti, gli si esprime in faccia una grande bontà. Che capriccio fu quello di chiamarlo Nino? — Bixio ! Ecco il nome che gli sta! Almeno rende qualcosa come un guizzo di folgore”.
Il libro di Celesia riporta due conversazioni a più voci, sempre attorno al tavolo da pranzo su una nave nel porto di Genova (così ha inizio Lord Jim di Conrad ma a Singapore). La prima è del gennaio 1860, la seconda si colloca fra il 1866 e il ‘73. Vi partecipano l’autore, comandanti, armatori e Nino Bixio, ormai gran personaggio acclamato eroe.
Nella sua introduzione, Celesia ricorda l’incontro di Nino Bixio con re Vittorio Emanuele “che l’ebbe sempre assai caro”.
“Fattosi innanzi a lui – Sire, ei diceva, manca un duce all’armata che voglia e sappia vincere ad ogni costo; io ve ne chieggo il comando”, giurando sulla testa “dei figli miei di seppellirmi tra i flutti, o di tornar vincitore”.
Commenta Celesia: “Povero Nino! Parecchi dì appresso avvenne lo scontrazzo di Lissa, che gli seppe più micidiale d’un coltello nel cuore”.
Così liquido il ricordo Bixio a cena con gli amici genovesi. “L’infamia di Lissa costò ben cara all’Italia. Ma tira via, tira via, ch’a questo pensiero sento abbruciarmi il cervello”.
Emozionante ancora oggi è il racconto che fa Bixio di quella tragica notte del 1846 quando lui e due amici genovesi imbarcati su un veliero inglese ne fuggirono nuotando in mezzo agli squali davanti a Sumatra.
Leggiamo il racconto direttamente da Bixio.
“Nel 1846 io lasciai il naviglio di guerra, e insieme con due miei fidatissimi amici, il Tini e il Parodi, feci disegno di imbarcarmi con essi loro per il Rio della Plata”.
I tre genovesi furono arruolati come marinai su un veliero americano “diretto a caricar pepe in Sumatra.
“Non l’avessi mai fatto! Il capitano, per quanto onesto e abilissimo, apparteneva alla setta dei quaqueri; quindi a bordo letture di Bibbia, sermoni, preghiere, digiuni e una austerità di contegno e di modi, qual maggiore non avremmo trovata in un chiostro di certosini. A noi baldi di giovinezza e di brio, quella vita di santimonie e di ferrea disciplina piacea come il fumo negli occhi.
“Voi conoscete l’adagio de’ marinai genovesi: Senza vino si naviga, Senza mugugni, no; e a noi perfino il mugugno, era severamente interdetto”.
Così il terzetto decise di disertare. Ciò avvenne quando la nave giunse in vista di Sumatra. Col buio dovevano “lanciarsi ne’ flutti e afferrare a nuoto la riva. Calate le tenebre, il Parodi assai meno avventato di Tini e di me, ci pose innanzi il pericolo de’ pescicani e de’ squali, ond’erano infestati que’ mari, e che da più giorni vedevansi saltellare, come monelli, attorno alla nave; e noi per tutta risposta – non te ne incaricare – e giù a capo fitto nelle onde. Ed egli di botto con noi. Nuotammo facilmente per alcune ore: ma la terra che di notte c’era sembrata sì presso, parea fuggire da noi e farsi più ognora lontana.
“Cominciava a fallirci la lena: pur si filava alla meglio, or facendo il morto, or nuotando di fianco: ma s’era spossati e quasi esausti di forze. Diedi attorno uno sguardo, e veggendo il Parodi assai discosto da noi, come men destro nuotatore che egli era, mi volsi per trarre in suo aiuto, quando a un tratto, ch’è, che non è, mi scomparve dinanzi.
“Pur troppo un di que’ voraci predatori del mare, de’ quali egli presentiva il pericolo, l’aveva azzannato e travolto nel fondo; io n’ebbi certezza dall’agitazione dell’onda e dalla nera pinna del mostro a fior d’acqua, che intravidi nel punto in cui ci fu tolto per sempre. Povero amico mio!
“Cominciava ad albeggiare. Il rischio d’essere noi pur divorati da quegli enormi cetacei, ci aggiunse vigore; e buon per noi che scorgemmo non discosto un banco di corallo, ove dopo sforzi inauditi ci fu dato sostare.
Dopo una sosta sullo scoglio “ci buttammo un’altra volta tra i flutti, e tanto sbracciammo di nuoto, che si giunse alla riva, ma come e in qual modo, vattelo a pesca: poichè fummo raccolti privi di sensi sul lido. Io rammento soltanto, che aprendo gli occhi, mi vidi disteso accanto il Tini, che già cominciava a riaversi, e una moltitudine di Malesi, intesa a sovvenirci di bevande e di cibo. Forse que’ selvaggi ci tennero per esseri privilegiati, non potendo comprendere come ci venisse fatto di sfuggire ai capidogli onde ribocca quel golfo. Certo è che fummo trattati con la più squisita amorevolezza, fino a vestirci con calzoni rossi di seta e con tutti quegli altri fronzoli che colà si costumano”.
Ma dopo qualche giorno “ci cadde in breve la benda, poichè ci avvedemmo essere tenuti quai prigionieri. Non basta: un più serio pericolo ci minacciava; quello cioè, di dover sottostare alla formalità rituale e religiosa, che l’Islamismo impone ai credenti. Noi fieramente ci rifiutammo a subire la barbara operazione. Ma un ordine espresso del re imponeva a’ nostri custodi di eseguire colla forza quell’infame cerimonia sopra di noi. Non c’era più scampo; la nostra circoncisione dovea quanto prima eseguirsi.
“Ma v’ebbe chi vegliava su noi. Il buon quaquero, preso terra, seppe della nostra prigionia, e ammirato della fermezza con cui ci opponemmo a mutar religione e a subir la legge de’ Mussulmani, propose a’ selvaggi il riscatto dei due fuggitivi. Qual moneta sborsasse a ricomprarci, non mi fu dato sapere; cert’è ch’egli ci accolse qual padre amoroso, e seco ci tradusse in America, da dove poi trassi in Anversa e a Parigi”.
Dalla tavolata emergono proverbi antichi della gente di mare genovese e veneziana. Ne riportiamo alcuni, molti in uso ancora oggi.
Tre cose fan l’uomo accorto: Lite, donna e porto.
Chi semina vento raccoglie tempesta.
Chi va pel mondo impara a vivere.
Il sapere ha un piede in terra e l’altro in mare.
Chi non s’arrischia, non rosica.
Chi non va per mar Dio non sa pregar (Veneto)Mare, fuoco e femmina, tre male cose.
Chi semina vento raccoglie tempesta.
In tempo di tempesta ogni scoglio è porto.
Due capitani: nave ne’ scogli.
Donna, cavallo e barca Son di chi le cavalca.
Tira più un pel di femmina, Che gomena di nave.
Chi mete pègola nella barca de altri, perde pègola e barca. (Veneto)
Il buon nocchiero muta vela, ma non tramontana.
Accerta il corso e poi spiega le vele.
Ognun sa navigar quando è buon vento.L’amor del mariner no dura un’ora: Per tutto do’ ch’el va, lu s’inamora; E se l’amor del mariner durasse No ghe sarave amor che ghe impatasse. (Veneto)
Nè moglie, nè acqua, nè sale, A chi non te ne chiede non gliene dare.
Ogni trista acqua cava la sete.
Ad ogni gran sete ogni acqua è buona.
È nettare per sete ogni ruscello (Dante)Acqua che non si move, marcisce.
Acqua cheta, vermi mena
Acqua cheta rovina i ponti.
Acqua passata, non macina più.Acqua torba non fa specchio.
Acqua chiara non fa colmata. Ogni secchio non attinge acqua.
Guardati dalle acque chete