Da internet all’intelligenza artificiale, una rivoluzione non solo culturale ma anche economica e politica che si può paragonare alla invenzione di Gutenberg della stampa a caratteri mobili 500 anni fa.
È la tesi che guida il libro “La Fattoria degli umani” (, ultimo di tanti, pubblicato da Enrico Pedemonte, giornalista genovese per molti anni fra Roma e Milano, Espresso e Repubblica. Editore è Treccani.
Il titolo “La Fattoria degli umani” richiama al capolavoro di George Orwell, inventore del Grande Fratello, che si intitola “La Fattoria degli animali”.
Spiega Pedemonte: “Ho lavorato a questo libro negli ultimi due anni con l’obiettivo di descrivere l’impatto socio-culturale (e politico) delle piattaforme digitali – dalla loro nascita fino all’intelligenza artificiale. Un lavoro improbo, ma alla fine sono soddisfatto”.
Questo libro, scrive Pedemonte nell’introduzione, nasce da una domanda che mi sono posto circa tre anni fa, quando mi sono imbattuto in alcuni indizi che, collegati insieme, risultano sorprendenti.
Il primo indizio è fornito da un rapporto di Freedom House, secondo cui dal 2005 il numero di democrazie nel mondo è in rapido calo mentre aumenta quello dei paesi autoritari. Questa tendenza è accompagnata da altri indizi poco tranquillizzanti: negli anni immediatamente successivi al 2005 cresce quasi ovunque la polarizzazione tra i cittadini, si impenna la sfiducia nei confronti dei governi mentre le vendite dei giornali vanno in picchiata. Esiste un legame tra questi fenomeni? Che cosa è accaduto in quel momento storico così destabilizzante?
Creo una cartella sul mio computer, la nomino “gli anni dell’inversione” e comincio ad annotare le ricerche su quel periodo. Presto emergono altre cose interessanti.
Per esempio Jon Clifton, amministratore delegato di Gallup, storica società di sondaggi, nota che nel mondo l’infelicità delle persone subisce un vistoso aumento dopo il 2011 e che nel 2021 la percentuale di individui che dichiarano di vivere la peggiore vita possibile è più che quadruplicata rispetto a dieci anni prima. Questo è particolarmente evi- dente tra i giovani, tanto che in molti paesi il numero di suicidi tra gli adolescenti cresce in modo inaspettato parallelamente all’aumento dei disturbi psichici.
Scavando nelle ricerche su quegli anni, saltano fuori altri indizi. Secondo un Rapporto del CSIS (Center for Strategic & International Studies) di Washington, tra il 2009 e il 2019 le proteste di massa, a livello globale, crescono ogni anno in media dell’11,5% arrivando a «eclissare gli esempi storici di epoche di protesta di massa come la fine degli anni Sessanta, la fine degli Ottanta e l’inizio dei Novanta».
Difficile crederlo, ma anche il grafico dei conflitti armati ha un momento di discontinuità: scopro su “Foreign Affairs” che, secondo l’Uppsala Conflict Data Program, i conflitti nel mondo, in discesa costante tra il 1990 e il 2007, da quella data crescono senza sosta: «Nel 2022 c’erano 55 conflitti attivi, con una durata media di circa 8-11 anni, un aumento sostanziale rispetto ai 33 conflitti attivi, che duravano in media sette anni, un decennio prima».
Ovunque vedo grafici che, in quegli anni, cambiano verso e si impennano, come se la storia umana fosse stata colpita da un’invisibile scossa tellurica.
La domanda che mi pongo – che rappresenta il filo conduttore di questo libro – è semplice: fino a che punto l’inversione di queste curve, segno di un’instabilità che colpisce diversi aspetti della nostra vita, può essere attribuita alla diffusione di Internet, che proprio in quegli anni si impenna, e soprattutto all’emergere dei social network che dilagano a partire dal 2007, grazie all’arrivo sul mercato degli smartphone?
«Correlation does not imply causation», diceva lo statistico britannico Karl Pearson: se due eventi sembrano correlati non è detto che tra i due ci sia un rapporto di causalità. Il fatto che a pochi anni dalla nascita dei social network molti paesi siano investiti da gravi fenomeni di instabilità non significa che il web e le piattaforme siano i principali responsabili. Anche se, guardando i numeri e le date, nasce almeno il sospetto che il digitale possa avere avuto un ruolo: nel 1990 poche decine di migliaia di persone erano collegate a Internet nel mondo, nel 2009 erano un miliardo e mezzo, nel 2023 oltre cinque miliardi. Nel giro di una generazione le reti digitali hanno invaso la nostra vita, modificato le nostre abitudini, cambiato il nostro modo di informarci, di comunicare, di passare il tempo e molto altro.
È diventata quasi un’ovvietà paragonare gli anni che stiamo vivendo – quelli della diffusione di Internet – a quelli che seguirono l’invenzione di Johannes Gutenberg, nel Quattrocento. Ma cosa accadde allora?
Elizabeth Eisenstein, la storica che ha scritto il testo fondamentale sulla rivoluzione della stampa a caratteri mobili, usa la parola disruption – in italiano perturbazione, rottura – per descrivere l’impatto che quell’invenzione ebbe sulla società cinque secoli or sono. È la stessa parola che viene comunemente usata oggi per illustrare le conseguenze sociali ed economiche del digitale. L’invenzione di Gutenberg – sono le parole di Eisenstein – diede origine a un proliferare di start up (molte delle quali destinate a fallire) che in pochi decenni portò a una moltiplicazione delle tipografie. Venezia, sede di molti editori, si trasformò nella Silicon Valley dell’epoca.
L’abuso di vocaboli a cui ci ha abituato la rivoluzione informatica è giustificato dal fatto che anche quella rivoluzione, come quella che stiamo vivendo, sconvolse l’ordine sociale come nessuno aveva previsto.
Nel 1440 esisteva una sola copia stampata della Bibbia. Nel 1450 ce n’erano 50, sparse per l’Europa. Cinquant’anni dopo erano un migliaio. Cent’anni dopo si producevano 400.000 libri l’anno; nel xvii secolo 500 milioni.
Eppure all’inizio non erano stati in molti a crederci: perché stampare centinaia o migliaia di libri quando ben pochi sapevano leggere? Chi li avrebbe comprati? Tutto ciò mi ricorda la celebre frase del presidente dell’IBM Charles Watson che all’inizio degli anni Quaranta disse di «vedere un mercato mondiale per circa cinque computer». Si sbagliava di parecchi miliardi, come si sbagliavano i detrattori di Gutenberg. Prevedere il futuro è un’attività rischiosa, dovremmo ricordarcelo di fronte alle recenti futurologie.
La rivoluzione culturale che emerse dall’invenzione della stampa fu sconvolgente e largamente imprevista. Presto ogni città ebbe la sua libreria e nelle case dei ricchi divenne normale avere una biblioteca ben fornita. Il 31 ottobre 1515 Martin Lutero, quando appese le sue 95 tesi alla porta della chiesa di Magonza, non immaginava che due settimane dopo sarebbero state distribuite a Londra, né che presto sarebbe diventato il primo autore di bestseller: la sua traduzione della Bibbia in tedesco vendette 5.000 copie in due settimane e in sette anni (dal 1518 al 1525) fu ristampata in 430 edizioni.
Alla tecnologia della stampa a caratteri liberi – secondo gli storici – va attribuita la Riforma protestante, la nascita dell’Illuminismo, il fiorire della scienza moderna e l’invenzione dell’opinione pubblica. Ma anche il proliferare delle sette religiose, un paio di secoli di instabilità politica, di guerre e persecuzioni sanguinose.
«La tecnologia è un acceleratore. […] I nuovi media alimentano le turbolenze politiche a causa dell’instabilità e della perdita di fiducia del pubblico nelle istituzioni», dice Margaret O’Mara, storica alla University of Washington. L’innovazione, assieme a molti effetti positivi, può generare sfaceli. Ma come si potrebbe giustificare una narrazione catastrofista sull’invenzione della stampa a caratteri mobili?
Questo libro ha diversi fili conduttori. Il primo – forse il più importante – è legato all’idea di personalizzazione: l’idea che ciascuno di noi possa ricevere le notizie, le pubblicità, le cure, i servizi progettati appositamente per lui. Si tratta di un’utopia, nata nell’immediato dopoguerra, che è forse diventata – nel modo in cui si è sviluppata – una minaccia al nostro vivere sociale e alla nostra stessa democrazia. Il secondo è il processo che ha consentito ad alcune società tecnologiche, nel corso degli scorsi decenni, di diventare grandi e potenti come Stati.
C’è poi un terzo filo conduttore, sotterraneo: il ruolo delle narrazioni. Perché quella che mi accingo a raccontare non è solo una sequenza di fatti, scoperte, innovazioni. È, soprattutto, il racconto di come è evoluta la narrazione di una tecnologia che ha cambiato la nostra vita. Da sempre il Potere impone narrazioni che combaciano con i propri interessi e ci mostra il mondo attraverso una lente deformante che condiziona profondamente la nostra visione del mondo.
È una storia che comincia diversi decenni or sono, da idee che sono penetrate nei laboratori, hanno condizionato l’evoluzione dell’informatica, plasmato le aspettative sul futuro del mondo e sulla forma stessa della società, e sono diventate ideologia, cultura, immaginario collettivo. La personalizzazione di ogni servizio ha talmente permeato le nostre vite che neanche ci rendiamo conto di come eravamo prima. I giovani non possono saperlo, perché prima non c’erano.
“La Fattoria degli umani” (Treccani editore), € 18,05.
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