Un mercato al rialzo e ribasso che snatura il concetto stesso di scuola. I diplomifici sono la parte marcia dell’istruzione privata, una realtà non democratica, per pochi, quelli che tendenzialmente hanno le spalle coperte da chi è disposto a spendere somme notevoli (i genitori), pur di terminare, o meglio, comprare, quello che altri guadagnano a suon di notti insonni sulle “sudate carte”. Ma è proprio questa fatica il primo rito di iniziazione a ciò che dopo le superiori l’individuo sperimenterà fino alla sua pensione: essere giudicato per ottenere ciò di cui vivrà, ossia il lavoro.
La scuola dell’obbligo protegge, finché si è dentro questa culla beata ci si può permettere di temporeggiare sulla propria esistenza. Poi si deve spiccare il volo, per cui non basta avere un pezzo di carta, ma è necessario ben altro, in primis l’esperienza di vita sui banchi di scuola, nel bene e nel male. “Ora parrà s’eo saverò cantare”, per dirlo con le parole del poeta Guittone d’Arezzo. Tradotto: “Adesso si vedrà se sarò in grado di far poesia”. Metaforicamente potremmo dire: se saprò stare al mondo.
Il fatto che il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara si sia mosso contro i diplomifici, con un piano straordinario, oggi giunto a conclusione, suggerisce che la situazione era andata fuori controllo, considerando che la destra ha sempre visto favorevolmente l’istruzione privata. Forse in viale di Trastevere qualcuno ha capito che bisognava mandare un segnale, vigilare sul Far West.
“Ribadiamo il nostro impegno costante per garantire standard di qualità a tutti gli studenti, che frequentino scuole statali o paritarie”, ha detto il ministro, revocando lo status di ‘paritarie’ a 47 istituti. Meglio tardi che mai. Ora sarebbe il caso di non mettere i professori alle prime armi nella condizione di dover bussare alla porta proprio di quegli istituti per lavorare. E questa sarebbe la vera rivoluzione, non rendere i percorsi lavorativi dei docenti una discesa verso gli inferi.
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