Donne e diritti: una questione ancora aperta

(Foto LaPresse)

ROMA – Le quote rosa migliorano la politica: non è un assunto femminista, ma il risultato di una ricerca dell’Università Bocconi. Dedicata a tutti coloro che dicono che le quote rosa obbligatorie non fanno davvero la differenza, perché la bravura di una persona – politica e non solo – non dipende dal suo sesso. E invece da uno degli atenei migliori d’Italia ecco la conferma del contrario: la presenza di candidate donne incide positivamente sulla qualità di chi viene eletto.

Sorprende che una ricerca simile sia stata condotta proprio in uno dei Paesi meno adatti alle donne nel mondo. Anche in questo caso non si pensi a prese di posizioni ideologiche. Secondo il Global Gender Gap Report, il Rapporto sulle diseguaglianze in base al sesso stilato dal World Economic Forum, l’Italia si colloca in settantaquattresima posizione. Godono di una maggiore parità, secondo il documento, le donne di Filippine, Sri Lanka, Uganda, Botswana e Malawi, tanto per fare qualche esempio che vada al di là dei noti Paesi come Islanda, Norvegia, Svezia o anche Stati Uniti e Federazione Russa.

I dati sono confermati anche dall’Unione Europea, che dice che le donne italiane corrono molto di più degli uomini il rischio di povertà ed esclusione sociale. Per non parlare del quadro che esce dal rapporto dell’Isfol, l’Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori: il ritratto del povero del 2012 ha il volto di una giovane donna precaria.  

Eppure l’aumento dell’occupazione femminile non farebbe bene solo alla politica. Anche la Banca d’Italia si è mobilitata a proposito, sottolineando che con un’occupazione femminile al 60 per cento il Pil italiano crescerebbe del 7 per cento. Invece oggi lavora solo una donna su due, con punte di una su tre nell’Italia meridionale. Lo dice l’Istat, che però, naturalmente, si riferisce solo al lavoro retribuito – e non in nero – senza considerare il lavoro non retribuito svolto dalle donne nella cura della casa e nell’assistenza di bambini e anziani di famiglia.

Ci sono differenze anche a livello salariale: un gap del 17,5 per cento che si traduce nel fatto che una donna deve lavorare 14 mesi per guadagnare quanto un uomo  in un anno. Questo nonostante le donne si laureino mediamente con voti più alti dei colleghi maschi e rappresentino il 59 per cento di tutti i laureati.

In questa situazione italiana, in cui sette milioni di donne hanno subito almeno una volta nella vita violenza da parte di un uomo, e circa 130 donne ogni anno vengano ammazzate dal loro compagno, ex o altro familiare, la questione femminile dà però segni di risveglio.

Per chi volesse ricordare la festa dell’8 marzo ci sono iniziative in tutta Italia: a Roma alla Casa Internazionale delle donne viene presentato il libro di Olympe de Gouges “La dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, mentre all’archivio di Stato si va alla scoperta delle donne che mancano nei libri di storia con “Voci della memoria restituita, Anna del Monte, Violante Camporese, Contessa Lara e le altre”

A Milano a Palazzo Marino il mito legato alla donna è raccontato dalla storica e scrittrice Eva Cantarella. All’Università Bicocca c’è invece il seminario aperto al pubblico “Le pensioni e le donne in tempi di crisi economica” con Carmen Leccardi, una delle maggiori esperte di tematiche di genere in Italia.

A Torino la sociologa Chiara Saraceno tiene una lectio magistralis al Palazzo Civico, e alla Galleria Subalpina è esposta la mostra fotografica “Women at work” di Laura Portinaro, con ritratti di donna al lavoro che testimoniano varie forme di discriminazione.

Dal 13 febbraio del 2011, prima manifestazione nazionale del movimento Se non ora quando, le donne italiane, professioniste e non solo, hanno ricominciato a parlare e a scrivere di una “questione femminile”. Perché al di là di chi si professa o meno vicino alle donne, una questione femminile esiste. Esiste nella pratica delle dimissioni in bianco e nella farfallina o spacco d’obbligo per una donna che voglia far parlare di sé in tv. Esiste nei pochi, pochissimi permessi di paternità, e nel terrore negli occhi di un datore di lavoro che si ritrova una dipendente incinta. Esiste nelle discriminazioni salariali e nella difficoltà di far accettare la necessità delle quote rose.

Esiste nel fatto che ancora oggi, come ha sottolineato il ministro Elsa Fornero, in Italia c’è “troppa enfasi sulle donne, mentre in un Paese normale le donne non dovrebbero reclamare i diritti”. Ma l’Italia non è un Paese per donne, e così la richiesta dei diritti continua, e non tacerà neppure oggi. Anziché le mimose, meglio diritti veri.

 

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