Donne e carriera, diritto negato? Tra pregiudizi e famiglia, in molte rinunciano

di Viola Contursi
Pubblicato il 9 Luglio 2012 - 18:31| Aggiornato il 11 Luglio 2012 OLTRE 6 MESI FA
Sheryl Sandberg, Coo di Facebook, una di quelle che ha conciliato lavoro e famiglia (Foto LaPresse)

ROMA – Anne Marie Slaughter, ex alta funzionaria dell’amministrazione di Barack Obama, è una donna manager che, come tante altre, non ha retto alla pressione di essere madre, moglie e capo e ha scelto la famiglia. Ha pubblicato un saggio sulla rivista Atlantic e ripreso dal New York Times sul tema “Perché le donne non possono ancora avere tutto”, con cui ha riacceso il dibattito sul nuovo femminismo. In sintesi l’autrice spiega di aver lasciato l’incarico di Director of Policy Planning del Dipartimento di Stato americano perché non riusciva a destreggiarsi fra lavoro e figli ormai adolescenti.

Sono poche, pochissime le donne manager che riescono a conciliare tutto: il lavoro, anche massacrante, le pressioni in ufficio, con la famiglia, con una famiglia che rimane miracolosamente unita, si possono contare sulle punte delle dita. Una delle poche, Sheryl Sandberg, offre 3 consigli veramente efficaci alle donne che aspirano ai piani alti:

Siediti al tavolo delle trattative. Le donne sistematicamente sottovalutano le proprie capacità. Come risultato, non negoziano per se stesse sul posto di lavoro. Le donne attribuiscono il loro successo a fattori esterni, gli uomini attribuiscono il successo a se stessi. Ma nessuno ottiene la promozione se non pensa di meritarla o se non dà il giusto valore ai propri risultati;

Fai del tuo compagno un vero partner, rendi il tuo matrimonio un rapporto alla pari. Gli uomini che vogliono stare a casa ad accudire i bambini, mentre le loro mogli sono al lavoro, subiscono le stesse pressioni sociali delle mogli che vogliono fare carriera. Non si può risolvere il problema della mancanza di leader donne se non si risolve anche il problema della mancanza di padri casalinghi;

Non mollare prima di aver deciso di mollare – cioè, non lasciarti sfuggire delle opportunità lavorative perché non credi di riuscire a conciliarle con la vita familiare o una maternità, se ancora non hai un bambino! Dal momento in cui una donna resta incinta e comincia a pensare a come far posto a un bambino nella propria vita, ebbene, da quel preciso momento la donna smette di puntare a una promozione, o rifiuta di iniziare un nuovo progetto.

Come abbiamo visto solo rari casi donne manager riescono ad essere madri e mogli efficienti e buoni capi. Più spesso rinunciano.  Strette tra un pregiudizio evidente, quello secondo cui le donne non sono altrettanto capaci degli uomini nel rivestire ruoli di comando (e difatti se riescono guadagnano comunque meno degli uomini), e un luogo comune di cui sono esse stesse vittime: ovvero che è la donna, per quanto emancipata, che sente e deve sentire la maggiore responsabilità per la famiglia. Famiglia intesa come figli, marito, nipoti, genitori…

Se l’uomo arriva a posti di comando e gli viene offerto, ad esempio, un ruolo come amministratore delegato l’unico suo pensiero è: riuscirò bene? Nel caso si tratti di una donna invece i pensieri, che spesso portano queste manager a rifiutare l’incarico, sono molti: riuscirò bene? Riuscirò a far capire che sono capace quanto e più di un uomo? Domande che vengono dopo però quelle preminenti: come farò con una mansione così “globalizzante”, con un ruolo che ti prosciuga tempo e forze a conciliare la mia vita privata, i figli da crescere, il marito da curare e non trascurare… Ed è lì, in quel preciso attimo che avviene l’abbandono, la scelta: come dice Sheryl Sandberg, COO di Facebook, inserita da Forbes nella lista delle 100 donne più potenti del mondo, 43 anni, mamma di due bambini, “da una parte le donne sottovalutano le proprie capacità; dall’altro le donne si sentono ancora la piena responsabilità della famiglia”.

Non nascondiamoci dietro un dito: una donna che raggiunge posti di comando viene sempre vista con diffidenza. In primo luogo dalle colleghe donne, questo va detto, e poi da tutti gli altri. Se è riuscito spesso il pregiudizio generale è che lo abbia fatto con metodi non proprio ortodossi. Se è evidentemente brava e capace deve comunque sempre continuamente dimostrare di “meritare” il ruolo che ha conquistato con il sudore, molto più che un uomo. Insomma la donna che vuole eccellere, qualora ci riesca, spesso e volentieri per farlo con le proprie forze deve sudare molte più camice dell’uomo. Deve superare ogni giorno un esame, deve dimostrare, non deve mai fare un passo falso: altrimenti sono tutti là pronti a dire “vedi, è una donna, non riesce a gestire”. Aggravata da un peso così grande sul lavoro, la donna manager deve affrontare un altro grande stress in casa, superare un altro luogo comune: che sia lei, nonostante tutto, la “regina del focolare”. Che la responsabilità, anche lì, gravi tutta sulle sue spalle. Ed ecco, davanti a questa scelta, tra la carriera e la famiglia molte donne scelgono, forse giustamente, gli affetti. Perché in fondo, come dice qualcuno, si lavora per vivere e non si vive per lavorare. Al di là di questo, però, il punto è che non si dovrebbe essere costrette a scegliere.

La legislazione può aiutare. Ovviamente lo Stato, con leggi a tutela delle mamme che lavorano, può aiutare almeno in parte a levigare questo problema di genere. A sorpresa l’Italia è ai primi posti in Europa per tutela delle mamme lavoratrici. Ma resta agli ultim

Secondo una recente indagine della Mercer Human Resourcers Consulting, società americana specializzata nel diritto del lavoro, il nostro paese è ai primi posti in Europa nella tutela delle mamme lavoratrici, sia per la durata dei congedi che per le retribuzioni concesse. Subito dietro agli inarrivabili paesi nordici, dove la tutela delle donne lavoratrici e a livelli eccellenti.

Per la maternità le mamme italiane posso sfruttare un periodo di congedo di 47 mesi. Nei primi cinque mesi di astensione “obbligatoria” l’indennità equivale all’80% dello stipendio, in quelli successivi al 30 per cento. In testa alla classifica c’è la Svezia, dove le settimane di congedo sono più del doppio, 96 mesi, con un intero anno retribuito con l’80 per cento dello stipendio. Seguono la Norvegia (51 settimane) e la Danimarca (47), mentre peggio di noi ci sono la Finlandia (44 settimane), la Gran Bretagna (26 settimane con la nuova riforma), la Francia (16) e la Germania (14), fanalino di coda con Grecia e Lussemburgo. Per Francia e Germania, però, l’indennità è a stipendio pieno.

Al di fuori dell’Europa il sistema più restrittivo è quello americano, dove il congedo per maternità – 12 settimane al massimo e a stipendio zero – è concesso solo per chi lavora in società con più di 50 dipendenti. All’opposto c’è invece il Brasile, in cui le donne ricevono l’equivalente di 10.500 euro per stare sei mesi con il loro bambino.

Il punto però è cambiare la mentalità. La legge può tutelare le donne manager che scelgono di avere anche una famiglia ma è prima di tutto nella società e nelle aziende che deve cambiare il modo di pensare. La legislazione oggi tutela le mamme-lavoratrici ma troppo spesso le donne sono costrette a una scelta: o il lavoro o i figli. Perché la maternità è vissuta come una colpa: rimani incinta e fai “perdere produttività” all’azienda, ti assenti, non lavori, hai “altre cose per la testa”. Per cui se anche l’azienda ti tutela, perché la legge glielo impone, comunque ti blocca: sei donna? E’ possibile che tu abbia dei figli o, peggio ancora, ne voglia avere? Io azienda per tutelarmi non ti faccio arrivare ai piani alti, non mi posso permettere di “mantenere” a prezzo altissimo un soggetto che potrebbe assentarsi da un momento all’altro “causa famiglia o gravidanza”.

E allora come uscirne? Un cambio di mentalità, appunto, è i primo passo da fare. Poi più servizi per permettere veramente alla donna di non dover scegliere. Per ristabilire una vera parità di genere: perché le donne devono scegliere e gli uomini no? Servizi significano asili negli uffici, significano permessi familiari, significano telelavoro se serve. Significa mettere in condizione anche le donne di eccellere, di realizzarsi in famiglia come nel lavoro, nè più nè meno degli uomini, senza punirle per pregiudizi antichi e convinzioni purtroppo ancora attuali.