Affamati, sporchi e intirizziti dal freddo umido e gelido che spinge le acque del fiume San Lorenzo. A questi e molti altri stenti dovettero far fronte gli italiani che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento lasciarono la Penisola per tentare di fare fortuna in Canada. I nostri migranti furono spesso vittime di raggiri e false promesse messi in atto da agenzie per l’emigrazione senza scrupoli, che spinsero contadini e operai, principalmente veneti, friulani, calabresi e siciliani ad abbandonare in massa le campagne italiane, imbarcandosi verso il Paese nordamericano, presentato come un’alternativa più attraente rispetto agli Stati Uniti. Ma la realtà era ben diversa e sebbene tali figure intermedie fossero legalmente riconosciute, il loro operato era tutt’altro che limpido.
Questo volto poco conosciuto dell’emigrazione italiana in Canada venne smascherato all’inizio del ventesimo secolo dal cronista Eugenio Balzan, inviato nel Paese nordamericano dal Corriere della Sera, all’epoca diretto da Luigi Albertini. Balzan realizzò un’inchiesta magistrale, intrufolandosi lui stesso tra i migranti italiani e seguendoli passo passo nel loro lungo viaggio, prima in treno e poi in nave, dall’Italia a Montréal. I suoi articoli sono raccolti in un libro pubblicato nel 2009, “Eugenio Balzan. L’emigrazione in Canada nell’inchiesta del Corriere 1901”, a cura di Renata Broggini e con prefazione di Gian Antonio Stella.
Il “caso Canada” finì sulle pagine del Corriere a seguito di segnalazioni giunte direttamente dal Québec, che riportavano casi di speculazione sugli emigranti. Proprio nel gennaio del 1901 a Roma si stava approvando una legge in materia di emigrazione. Fu allora che Albertini decise di sguinzagliare un reporter d’eccezione, Balzan, di solito ricordato solo per il suo ruolo amministrativo al giornale.
Obiettivo del cronista: fare chiarezza sulle condizioni dei suoi connazionali oltreoceano. Di fatto, l’inchiesta del Corriere dimostrò che l’emigrazione dei nostri migranti non era diversa da quella degli immigrati di oggi, che i loro documenti non erano sempre in regola, che ad attenderli non c’erano condizioni favorevoli. Anzi, nella maggior parte dei casi il contrario. “Topi”, così vennero definiti in un articolo pubblicato sul quotidiano canadese Hamilton Spectator.
L’inchiesta Jacini, condotta in Italia tra il 1877 e il 1886, mise in evidenza le precarie condizioni degli agricoltori italiani, anche in zone oggi ricche e industrializzate, come la provincia di Treviso. La relazione rivela: “Ogni sorta d’immondizie dal pattume delle case agli avanzi dei cibi, dallo sterco degli animali a quello dell’uomo è raccolta intorno alle case e vi è quasi rispettosamente conservata”. Quanto ai distretti di Bassano, Asiago, Marostica e Thiene:
“(…) Nelle stanze da letto ben sovente trovi con le vesti sudicie, deposte, il grano, la frutta. Tutto sta lì riposto, ammassato, chiuso in quelle strette cameruccie senza ventilazione. La biancheria da letto ben di rado merita il nome di bianca (…) I lettucci poi dei bambini sono un orrore: il puzzo che mettono vi fa torcere il volto…”. Fu proprio questa povertà estrema a spingere le partenze di milioni di italiani in terre lontane e sconosciute.
Un altro inviato del Corriere, Dario Papa, inviato a New York, scrisse: “Nessuno lo vuol fare ormai più. Non i negri, non i cinesi, non gli irlandesi. Lo fanno gli italiani”. Il collega Giacomo Raimondi, redattore economico del giornale, si focalizzò invece sull’emigrazione italiana in Brasile, scrivendo: “Nelle lontane fazendas, penano come gli schiavi, peggio che schiavi, in balia di tutti gli arbitri e di tutte le violenze”. Testimonianze dalle quali si evincono condizioni di vita al limite della sopravvivenza.
“Nella seconda metà di febbraio abbiamo avuto le prime notizie di un fenomeno demografico insolito, la partenza di numerosi emigrati italiani, diretti ad uno Stato, dove, fino allora, pochi assai avevano volto i passi. Questo Stato è il Canadà”. Inizia così il primo articolo scritto da Eugenio Balzan per l’inchiesta del Corriere. Il cronista partì il 17 aprile del 1901 da Milano. Passò cinque giorni in treno (Milano-Chiasso-Lucerna-Basilea-Anversa). Poi direzione oltremanica a Grimsby, in Inghilterra. Di lì a Liverpool, dove il 23 aprile si imbarcò sulla nave Lake Magestic per Montréal, sbarcando il 4 maggio. Il 23 ripartì da New York sull’Augusta Victoria, giungendo alla stazione di Paddington, a Londra, il 30. Imbarcatosi a Dover, tornò a Milano il 2 giugno. La pubblicazione degli articoli iniziò già nel mese di maggio, focalizzandosi su quei viaggi della speranza.
I migranti sulla nave “hanno i visi terrei, le guance infossate, gli occhi stravolti. Le barbe lunghe danno loro un aspetto ancora più selvaggio”, scrive Balzan. “Sembra non vedano la luce da qualche anno. Di quelli alzati, alcuni pochi sono avvolti in scialli; gli altri battono i piedi dal freddo (…) Hanno sofferto moltissimo tutti: più d’uno è ancora ammalato (…) Il pane, l’unica cosa che gradiscano, viene dato loro in quantità insufficiente (…) I marinai, a ogni preghiera scrollano le spalle, un po’ perché non li capiscono, un po’ perché evidentemente non li tengono in nessun conto (…) Fa freddo: un freddo, cari miei, da intirizzire le mani. Immaginatevi cosa devono aver sofferto gli emigranti che sono andati in Canadà un paio di mesi orsono e in identiche condizioni di questi”.
Poi lo sbarco con l’amara sorpresa: “Avevano detto ai nostri emigranti che al loro arrivo a Quebéc o a Montréal sarebbero stati alloggiati gratuitamente. Bugie”. Il giudizio di Balzan è categorico. Nulla di quanto promettevano gli opuscoli forniti dalle agenzie di emigrazione era vero. “Il contadino troverà un paese prospero, dotato di buone leggi, colle sue scuole e le sue chiese, le sue istituzioni, il suo commercio e le sue industrie: una vera Terra Promessa, infine, dove la fortuna e l’agiatezza aspettano l’uomo laborioso”, si leggeva in un opuscolo de Le Guide di Colon nel Canadà.
Nelle strade di Montréal la situazione degli emigranti era sotto gli occhi di tutti: “Così vanno girando di qua e di là senza sapere ove vadano, senza sapere che sarà di loro (…) Quelli che aspettano il lavoro che loro viene promesso, ogni giorno sono alle prese coi padroni delle case dove alloggiano (italiani della peggior specie); e se non pagano fino all’ultimo centesimo si vedono sequestrati i loro miseri effetti (…). Di giorno vagavano per le strade coperte di neve e di giaccio, lividi dal freddo e dalle privazioni, sporchi laceri sparuti. Spesso sdrucciolavano e cadevano, oggetto delle derisioni dei monelli e della compassione dei buoni. Molti elemosinavano”, riporta il cronista veneto, che punta il dito contro l’agenzia Ludwig di Chiasso o quella Berta di Giubiasco nel Canton Ticino, o “di qualche altra di Napoli”.
Balzan è consapevole di aver smascherato le false promesse di personaggi senza scrupoli: “Questa emigrazione resterà memorabile, perché mai la nostra gente, recandosi in un Paese straniero, è stata così atrocemente ingannata ed ha trovato tante tribolazioni”, sentenzia il giornalista, i cui articoli mostrano le sofferenze di chi ha pagato a caro prezzo il sogno di rincorrere una vita migliore. Ieri era l’Atlantico la speranza, oggi il Mediterraneo, che per molti si trasforma in una tomba. In questo caso prima ancora dell’approdo in un porto sicuro. L’ultimo naufragio dei migranti a Cutro, in provincia di Crotone, ne è la prova lampante.
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