Gay, per benedire una coppia bastano 12 secondi. Sono quelli utili e sufficienti a benedire una coppia gay.
L’eminente, eminentissimo cardinal Victor Emanuel Fernandez, detto Tucho, già arcivescovo di La Plata, Argentina, oggi prefetto della Congregazione della Fede, li ha tirati fuori dalla sua berretta purpurea.
Lo ha fatto per placare la rivolta che da ogni lato dell’orbe terraqueo cattolico circonda il Vaticano, papa Francesco e la sua decisione, con tanto di bolla pontificia, la “Fiducia Supplicans”, di concedere il permesso di benedire le coppie gay con l’acqua santa degli aspensori cattolico romani.
Bastano dodici secondi, non è necessario di più per “riconoscere” nella magnanimità della religione cristiana quella coppia che è venuta a chiedere conforto. Altro che rito liturgico, magari con canti, canne di organi, riverenze e abbracci. Tre gocce di acqua santa e via.
Questa possibilità benedetta aveva sollevato il finimondo soprattutto tra i cardinali più lontani e, per coincidenza, tutti fedelissimi di Francesco, scelti da lui con il criterio che taglia fuori da tempo le diocesi e le arcidiocesi italiane private della berretta rossa, come Genova, Milano, Venezia, Torino.
E per risolvere il caso, non certo l’ultimo, che circonda come in un assedio il Primato Pietrino, ecco la regola che bastano quei dodici secondi spicci in qualsiasi luogo, quasi a ridurre ai minimi termini un atto che il Vaticano ha riconosciuto, ma che una larga parte della Chiesa non accetta.
È solo l’ultimo capitolo di una contesa che oramai divide papa Francesco da una parte del suo grande gregge, soprattutto dai vertici più tradizionalisti della Chiesa. E che passa attraverso le sue riforme rivoluzionarie in Vaticano e ovunque, attraverso il Sinodo, oramai giunto a pochi mesi dal suo “redde rationem”, che potrebbe portare più che grandi novità nella dottrina cattolica ulteriori divisioni e distanze.
O addirittura lasciare le cose come stanno. Dopo tanta, catastrofica e inutile attesa.
Questo Papa, che ha appena compiuto 87 anni di età e 11 anni di un pontificato che nessuno poteva prevedere tanto rivoluzionario, appare da una parte ancora molto presente, seppure con le magagne dell’età, la carrozzella, i ricoveri lampo, la voce qualche volta arrochita dalla bronchite, l’incidere faticoso con il bastone.
Ma da un’altra parte il successore di Ratzinger sembra deciso nelle sue riforme, nei suoi atteggiamenti e dall’altra un po’ scavalcato dalle ipotesi della sua successione. Dopo che l’accusa più frequente nei suoi confronti nelle segrete stanze del potere e sottopotere vaticano, nelle sacrestie più piccole della Chiesa periferica, ma anche sotto le navate delle grandi cattedrali, è stata quella di avere preparato un conclave perfetto per la sua successone, garantito da cardinali a lui fedelissimi, preparati a eleggere un futuro papa a sua immagine e somiglianza.
Scelti come fior da fiore in tanti concistori della suo lungo regno vaticano.
Cioè nel solco delle sua riforme, del suo stile. Quello di chi abita nel collegio di Santa Marta, esce da solo, oltre le mura Leonine per comprarsi gli occhiali, cammina con le scarpe ortopediche, annuncia che vuole essere seppellito a Santa Maria Maggiore e non come i suoi immediati e lontani predecessori, nella cripta di San Pietro.
E che risponde oramai in modo ironico a chi gli fa domande sulle sue eventuali dimissioni, prima quasi previste da lui stesso e poi un po’ per volta annegate in un silenzio impalpabile.
Un papa che dimostra la sua età non solo nel passo incerto, ma anche con le battute come quella “Sono ancora vivo!!”, rivolte a chi gli chiede come sta.
Ma intanto programma, finalmente, per la seconda metà del 2024, il tanto atteso viaggio nella sua Argentina, nella quale non è mai voluto andare.
E decide di farlo proprio oggi che il grande paese sudamericano è come un vulcano in eruzione con il nuovo presidente anarchico sfascista, Xavier Milei, che durante la campagna elettorale, rivelatasi vittoriosa, lo aveva definito “uno sporco comunista”.
Il papa va avanti, anche verso la sua lontana patria, quel posto alla fine del mondo, dove i cardinali lo scelsero nel 2013 e intanto accetta una lunga, chilometrica intervista in tv da Fabio Fazio, dove c’è la libertà di chiedergli quello che si vuole e lui per mezz’ora risponde come nessun Papa aveva mai fatto così pubblicamente, così poco circonfuso da alcuna sacralità del suo ruolo di fronte all’intervistatore.
E’ un papa stanco che, però, non perde colpi e non lascia intravvedere crepe nel suo pontificato, come accadde nel finale a Giovanni Paolo II che quasi agonizzante faceva uscire dal suo appartamento pacchi di carte piene di nomine o a Benedetto XVI che negli ultimi tempi, prima del suo sensazionale addio, lasciava quasi tutto in mano al segretario di Stato, Tarcisio Bertone.
Francesco convoca i cardinali e censura con loro Raymond Burke, il cardinale americano considerato “suo nemico” perché conservatore, contrario alle sue riforme progressiste e gli fa togliere casa e stipendio.
E continua a nominare porporati qua e là per il mondo, forse convinto, appunto, di preparare una successione che però nessuno può sapere come sarà, perché poi alla fine nella Cappella Sistina sotto quel Giudizio Universale le dinamiche sono imprevedibili: chi poteva prevedere Woytila e Giovanni XXIII? Chi poteva pensare che Giuseppe Siri, il genovese per due volte entratovi papa, sarebbe uscito ancora cardinale?
Francesco, che ha lanciato il Sinodo, mettendo a discutere la Chiesa in ogni angolo del mondo sul suo futuro, ora scrive che è preoccupato del suo esito, dove lampeggiano le troppe volte emerse minacce di scisma dei tedeschi, dove preti, suore, laici e laiche promettono rivoluzioni, che mettono in crisi la natura sacramentale.
I grandi temi che affliggono la Chiesa urgono oramai con forza, il crollo delle vocazioni nella vecchia Europa, la deregulation del catechismo nelle lande lontane dell’Amazzonia, le sottomissioni al potere politico in Cina, dove i vescovi passano per le decisioni della dittatura di Pechino, e escono titoli di giornali con urli come “Ita Missa est”, come dire è finita, o titoli di autorevoli libri che annunciano “La Chiesa brucia” o altri che ricordano come “Non c’è più la domenica”, nel senso che i riti sono abbandonati, mentre emergono altre prassi per catturare i fedeli.
E davanti a tutto questo Francesco nomina custode della fede quel cardinale argentino, Fernandez alla Congregazione dell’ex Santo Uffizio, che nella sua Argentina era stato bocciato per i ruoli più importanti.
E scavalcando ogni gerarchia il messaggero di pace per le guerre è Matteo Maria Zuppi l’arcivescovo di Bologna, presidente della Cei, l’amatissimo don Matteo della parrocchia di santa Maria in Trastevere, l’amico di Romano Prodi.
Rimbalza da Mosca a Kiev, sicuramente una figura alta, ma che ha fatto alzare più di un sopracciglio tra le feluche vaticane e non solo, soprattutto negli Stati Uniti. Dove ci si aspettava un corso vaticano diplomatico finalmente in linea con le carriere, dopo l’interventismo personale di Bertone ai tempi di Ratzinger.
E’ come se, smontato il precedente sistema di potere vaticano da Francesco, ora ci fosse una Curia parallela a santa Marta, che prende le decisioni chiave, distribuisce incarichi e sceglie soluzioni.
Chi ne esce più in ombra rispetto al passato è il segretario di Stato Pietro Parolin, la cui figura sfuoca. Vengono in mente fulmini e saette antiche della storia vaticana, di papi durissimi come Francesco quando “spoglia “ Burke e degrada il cardinale sardo Angelo Maria Becciu implicato nell’affare un po’ tanto poco chiaro delle operazioni immobiliari a Londra.
Vuol dire che comanda sempre Francesco, che muove le sue pedine come il cardinale maltese Mario Ghech, che ha il compito di seguire l’onda alta del Sinodo, di tenere a bada i cardinali tedeschi, di smussare gli angoli, di trovare una soluzione davanti alle micce che bruciano non troppo lentamente, come quelle dei preti sposati, dei laici sull’altare, degli abusi sessuali, del ruolo delle donne nella liturgia, della secolarizzazione oramai divorante le nuove società deboli di valori. E come quella, appunto, l’ultima, delle benedizione alle coppie gay.
Una decisione forse troppo rapidamente dal sen fuggita a Santa Marta e, quindi, corretta con quei 12 secondi entro i quali compiere l’atto sacro. Non irritando gli amici cardinali africani e asiatici già in rivolta e concedendo qualcosa al progressismo di chi considera che una buona volta bisogna continuare la strada imboccata con il Concilio Vaticano II.
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