A Genova, la città più vecchia forse al mondo, esplode la “quarte età”. Dagli 840 mila abitanti del 1971 ai 531 mila del 2022.
Genova è la città italiana che ha perso più abitanti in una potente trasformazione economica, sociale, perfino culturale. Ma non è questo il tema oggi, dopo che sulle cifre demografiche si è scatenata una piccola battaglia del sindaco Marco Bucci, che rivendica, invece, un riscatto di ripopolamento, spiegato con un più moderno tipo di calcolo e che ha lanciato un censimento più legale, meno residenziale.
Il problema, somma degli abitanti a parte, è un altro. Anche l’Istat dice che Genova è la città più vecchia d’Italia. E forse è una delle città più vecchie d’Europa e del mondo, con il suo apicale indice di vecchiaia, 264 over 65 anni contro 100 giovani over 14 anni.
Scavare nelle cifre demografiche dell’età dei genovesi apre uno scenario che non può sfuggire a chi si occupa nelle diverse posizioni della città, come amministratore pubblico. Ma anche come operatore sanitario, come imprenditore, come persona di cultura. Qualcuno affronta il fatto che oggi i genovesi tra i 75 e gli 80 anni sono 30 mila, quelli tra gli 80 e gli 85 sono 29.892, quelli tra i 90 e i 94 sono 9.300, quelli tra i 95 e i 99 2.421 e gli ultra centenari quasi trecento?
Insieme sono una città affollata come Savona o Imperia.
Oramai il tasso di natalità è al 5,9, mentre quello di mortalità sale al 14,7. Nel 2021, ultimo anno rilevato i nati sono stati 3307 e i morti, sicuramente alzati dal secondo anno della malefica pandemia, sono stati 10021, due mila sopra la media degli anni precedenti.
E’, quindi, una città nella quale le generazioni più “forti” numericamente sono quelle intorno alla media età, intorno ai 50 anni. Un livello nel quale le scelte di vita a sono già prevalentemente fatte, anche se l’altra faccia della vecchiaia che cresce è che la vita si allunga e le prospettive di continuare a lavorare, a rendersi utili, continuano in tanti modi, quota 100, o altre formule di pensionamento a parte.
Dove va a parare questo ragionamento, che riguarda la maggior parte degli abitanti, in crescita o in decrescita che siano, a seconda dei metodo di calcolo?
Che Genova deve prepararsi ad un assetto sociale adeguato all’età della popolazione. Certamente se la città si sviluppa, se tanti cantieri si aprono, se diventa più attrattiva e più comunicativa infrastrutturalmente con il resto dell’Italia , se la nuova Diga portuale moltiplicherà gli affari del porto e il territorio urbano, se il Terzo Valico ci porterà vagoni di milanesi e padani, se i nuovi flussi turistici animeranno affari, iniziative e creeranno posto di lavoro, il beneficio ci sarà per tutti, dai bebè ai centenari.
Ma resta il problema strutturale del nuovo equilibrio organizzativo nei servizi sociali, nell’assistenza a un esercito di ultra anziani, che non si risolve certo solo con le badanti o i badanti, una realtà che ha preso piede negli ultimi 10-15 anni e che si fonda principalmente sull’immigrazione, i cui numeri sono oscillanti. E la cui richiesta di occupazione incomincia a dilagare per altri settori di lavoro.
Oggi la Genova “straniera” conta circa 55 mila immigranti, molti dei quali stanno diventando, tra l’altro “italiani”. E non sono certamente solo badanti, svolgono attività sempre più importanti, sopratutto in prospettiva nelle attività che gli italiani oramai schivano o evitano per ragioni che ci porterebbe lontano.
Basta andare in un grande cantieri navale in attività e scoprire una “torre di Babele” di nazionalità. Provate a scovare lì dentro un saldatore, un idraulico genovese o italiano, sarà quasi impossibile.
Insomma il quadro sociale in divenire, tra invecchiamento e flussi migratori, impone un “modello Genova” anche per affrontare l’orizzonte demografico che ci si para davanti.
Serviranno più centri di assistenza alla persona, più istituti specializzati, più spazi dedicati alla terza e a quella che oramai possiamo chiamare la “quarta età”, in una città dove sempre più famiglie festeggiano in casa il proprio centenario o la propria centenaria. “Quarta età”, quella fase della vita sempre più vicina ai 100 anni, nella quale spesso si resta vigili, attenti, perfino attivi o si ha bisogno di una assistenza “totale”.
Ci vorranno più medici geriatri, se questo termine vale ancora e se i medici di oggi non si sono già specializzati per forza nelle cure ai più anziani.
In passato questo filone di assistenza a Genova aveva avuto generose e importanti spinte di privati, benefattori e, soprattutto attraverso la Chiesa, di grandi preti e di grandi arcivescovi, come il cardinale-pricipe Giuseppe Siri, che avevano gettato le fondamenta di istituzioni tutt’ora in azione, basta pensare a don Orione, a padre Damaso, a don Tubino, alla fondazione dei relativi istituti come l’Auxilium, diventato poi Charitas.
Queste iniziative garantivano poi i contributi sostanziosi dei privati che finanziavano le cosidette “buone opere”. Ma quello era uno scenario Ottocentesco, Novecentesco, dove tutto questo avveniva in un quadro etico-religioso ispirato dalla beneficenza, dalla carità.
Oggi la realtà è ben diversa in una società “liquida”, secolarizzata, dove le fragilità si sono moltiplicate e l’assistenza allarga a dismisura lo spazio dei suoi interventi.
Ma Genova resta la città più vecchia d’Italia e questo dato richiama una emergenza non più sottovalutabile.
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