da: Corriere Della Sera
Gino Paoli: gli anni dell’esordio. “Sono di sinistra, ma l’ Italia avrebbe bisogno di una destra seria”
GENOVA – Gino Paoli racconta. Intervistato da Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera, Gino Paoli ha ricordato:
“Mio padre, figlio di un operaio analfabeta delle ferriere di Piombino, aveva fatto l’ accademia di Livorno ed era arrivato ai cantieri di Monfalcone come ingegnere navale. Là aveva sposato mia madre, che invece veniva da una famiglia benestante, i Rossi.
Io sono nato nel 1934 e ho vissuto i primi mesi Monfalcone, poi ci siamo trasferiti a Genova.
Dieci anni dopo, parte della famiglia di mia madre morì infoibata.
I miei parenti non erano militanti fascisti, erano persone perbene, pacifiche. Ma la caccia all’ italiano faceva parte della strategia di Tito, che voleva annettersi Trieste e Monfalcone.
I partigiani titini, appoggiati dai partigiani comunisti italiani, vennero a prenderli di notte: un colpo alla nuca, poi giù nelle foibe. Mia madre e mia zia non hanno mai perdonato. Mi ricordavano spesso i nomi dei loro cari spariti in quel modo, senza lasciare dietro di sé un corpo, una tomba, una memoria.
Per questo mia zia odiava gli jugoslavi; e per me è stata una bella sorpresa, da adulto, andare per la prima volta in Jugoslavia e scoprire che non erano affatto tutti così. […]
“È la guerra che rende l’ uomo atroce; per questo io odio la guerra. Una parte della nostra famiglia è finita nelle foibe e di queste cose per decenni non si è parlato. E la sinistra porta una responsabilità culturale, perché il partito doveva coprire la connivenza dei partigiani rossi con la strategia di Tito. Vedrai che ci vorrà un altro mezzo secolo perché le passioni si spengano e se ne parli liberamente.
Atrocità hanno commesso anche gli alleati che risalivano l’ Italia. Le truppe d’ assalto avevano il diritto, riconosciuto per iscritto, di saccheggiare e stuprare: e le truppe d’assalto erano per gli americani i neri, per i francesi i marocchini, per gli inglesi gli indiani.
Le conseguenze le hanno patite le donne italiane, finché queste truppe non si sono attendate al Tombolo, in Toscana, in un accampamento frequentato da femmine alla disperata ricerca di cibo, finché non sono arrivati gli americani ad arrestare tutti.
Io stesso dovetti scendere dal treno che ci riportava a Genova e passare tra le macerie di Recco distrutta dal bombardamento alleato – non avevo ancora dieci anni – camminando tra due pile di cadaveri. È un ricordo indelebile. Per questo, quando le due torri crollarono, ho reagito diversamente da chi la guerra non l’ ha conosciuta, da chi bombardamenti non ne ha subiti mai. Anche se riconosco agli americani (al di là del comportamento di Bush che ha usato la tragedia come un pretesto) di aver reagito dimostrando il loro senso dello Stato. Magari ce l’ avessimo anche noi italiani”.
La politica, nota Aldo Cazzullo, appassiona Gino Paoli fin da ragazzo. Un ricordo indelebile, il 30 giugno 1960:
“Quando a Genova si seppe che per il congresso missino sarebbe tornato in città Basile, l’ uomo che aveva compilato le liste degli operai da mandare in Germania, allora studenti e portuali, professori e camalli reagirono allo stesso modo, senza neppure bisogno di parlarsi. Il Pci fu del tutto scavalcato, come lo fu Togliatti dal fratello, che insegnava all’ università e marciò in testa ai cortei. Io presi la mia razione di botte.
Le jeep caricavano fin sotto i portici, e i respingenti di gomma facevano male. Il congresso dei missini, che allora si chiamavano ancora fascisti, non si fece più, il governo cadde, ma una generazione ha pagato cara quella vittoria: c’è gente che ha passato in galera vent’ anni, un mio amico portuale in galera c’ è morto.
Facevo politica ma non mi sono mai iscritto al Pci. Mai amato le bande, i gruppi, i movimenti: ho visto troppi capi dei movimenti finire da Vespa. Meglio pochi amici, con cui passare la notte a parlare. Più di Marx ho sempre amato Rousseau: i beni della terra e dell’ intelletto devono essere beni comuni. Come ogni artista, sono un po’ anarchico. Mi piaceva una scritta che vedevo da ragazzo a Pegli: “Comunismo sì, ma anarchico”. Non so bene cosa voglia dire, però mi ci riconosco”.
Anarchico, osserva Aldo Cazzullo, si dice fosse De André, ma, replica Gino Paoli,
“con lui non ci frequentavamo. Apparteneva a un’ altra casta, suo padre era il braccio destro di Monti, comandava all’ Eridania”.
Gino Paoli è stato eletto deputato, tra gli indipendenti di sinistra, nel 1987:
“Non è stata un’ esperienza del tutto negativa. Ho imparato molte cose. Però avrei preferito rendermi utile agli altri. Invece la politica è complicata; per questo gli improvvisati che vi arrivano da fuori combinano un sacco di guai.
Una volta avevamo politici che facevano affari. Oggi abbiamo affaristi che fanno politica. […]
In Inghilterra la società è più avanzata: non a caso Marx aveva previsto che la rivoluzione si sarebbe fatta là. Non è andata così ma in compenso hanno avuto la Thatcher, che nei primi anni ha messo il Paese alle strette, però a lungo andare ha portato risultati. Mi farò odiare, ma l’ Italia avrebbe bisogno di una destra seria: liberale e dotata di senso dello Stato; che non privatizzi scuola e sanità ma imponga le ristrettezze necessarie a preparare la stagione delle riforme.
Prima un po’ di conservatorismo per mettere da parte i soldi, poi gli investimenti per ristrutturare la casa”.
Gino Paoli, pur non amando Berlusconi, non si è unito alla mobilitazione di artisti e intellettuali contro di lui.
“Ho attaccato Berlusconi quando non voleva pagare la Siae, negando alla cultura la sua fonte di sostentamento. Per il resto, non avevo nulla da dimostrare. Tutti sanno bene come la penso. E io non ho cambiato idea; sono loro ad averla cambiata. Io sono sempre di sinistra, diciamo pure comunista; sono loro a non esserlo più.
Non credo alle bande. Nel 1968 smisi di suonare per fare l’oste a Levanto: le mie cose non erano più adatte ai tempi, e non mi andava di cantare “viva” o “abbasso”. Restai zitto per sette anni, fino a quando Gianni Borgna, allora capo della Fgci romana, mi invitò a suonare qualche canzone al Pincio. Andai avanti per due ore, e scoprii che i giovani comunisti potevano ascoltare Sapore di sale, che avevano capito come anche la poesia e l’amore fossero politica”.
Sapore di sale, forse la più bella canzone mai scritta da un italiano, è del 1963. È l’ anno in cui si spara al cuore:
“Ogni suicidio è diverso, e privato. È l’ unico modo per scegliere: perché le cose cruciali della vita, l’ amore e la morte, non si scelgono; tu non scegli di nascere, né di amare, né di morire. Il suicidio è l’ unico, arrogante modo dato all’ uomo per decidere di sé. Ma io sono la dimostrazione che neppure così si riesce a decidere davvero. Il proiettile bucò il cuore e si conficcò nel pericardio, dov’è tuttora incapsulato.
Ero a casa da solo. Anna, allora mia moglie, era partita; ma aveva lasciato le chiavi a un amico, che poco dopo entrò a vedere come stavo”.
Nel 1964 Gino Paoli ha avuto due figli: Giovanni, che ora ha curato per Laterza la sua biografia; e Amanda, con cui adesso discute di storia.