Totigate e riflessioni conseguenti. La parola “garantista”, pronunciata meccanicamente dai sostenitori di Toti & Co. , esce loro di bocca come un crisantemo lasciato a marcire dopo il giorno dei defunti, scrive Michele Marchesiello, ex magistrato, su Micromega.
“Garantista”, e il suo opposto “giustizialista”, sono parole ormai appassite : escono di bocca quando chi le pronunzia non sa più cosa dire.
“Sono tranquillissimo”, proclama ancora l’indiziato, e aggiunge, come di prammatica : “Ho la massima fiducia nell’operato della giustizia”. I suoi sodali, nel frattempo ne proclamano l’innocenza – o meglio la tecnica “non colpevolezza” – sino all’esaurimento dei famosi “tre gradi di giudizio”, contando sulla lentezza e gli interminabili contorcimenti del nostro processo penale.
Dirsi garantisti, oggi, significa soltanto trovare, nel nostro astruso sistema penale, l’estrema difesa dell’illegalità e dell’assenza di un’etica pubblica intesa come impaccio all’affarismo e alla corruzione.
Toti & Co. hanno il diritto di proclamarsi “non colpevoli”, o non ancora colpevoli, ma non hanno più il diritto di dirsi “innocenti”. L’innocenza l’hanno persa prima ancora di venire condannati penalmente. E l’hanno persa nel momento in cui la Finanza e la Magistratura hanno sollevato la pietra che nascondeva il verminaio.
“Ecco la giustizia a orologeria!” si proclama ancora, con l’appoggio esplicito, niente meno, del Ministro Guardasigilli.
Come se magistrati e polizia giudiziaria dovessero, nel gestire i tempi delle indagini loro affidate, destreggiarsi in uno slalom tra le continue occasioni elettorali: si tratti delle Europee o del Molise.
A ben vedere, però, un’intenzione la si può cogliere tra le righe del provvedimento del GIP. Quell’intenzione, sottintesa, è di rispondere alla recente accelerazione dei progetti governativi volti da un lato a limitare l’indipendenza e l’autonomia della nostra magistratura, e dall’altro a “imbavagliare” l’informazione sulle sue inchieste più pericolose e imbarazzanti per il potere.
Bastino due osservazioni.
Senza la possibilità di intercettare le conversazioni tra gli indagati, e di pubblicare integralmente quelle rilevanti per le indagini, non sarebbe stato possibile per la pubblica opinione essere effettivamente tale, cioè “opinione” genuina sull’orrenda rete di complicità e corruzione stesa sulla regione. Scoperchiare questa situazione era necessario e non può essere confuso con la bassa opportunità di spiare il funzionamento del potere dal buco della serratura.
Ma non solo questo. C’è piuttosto da chiedersi, ove l’iniziativa ministeriale di separare le carriere dei Pm da quella dei giudici fosse stata già condotta in porto, se la stessa inchiesta dei Pm genovesi sarebbe stata possibile. La dipendenza delle procure dall’esecutivo, siamone pur certi, avrebbe paralizzato ogni iniziativa considerata dannosa per la maggioranza al governo.
Un concorso e un Csm separati e distinti da quelli dei giudici avrebbero già, nei fatti, creato una nuova dipendenza, non più dalla legge, come detta solennemente la Costituzione, ma dalle scelte politiche del ministro della Giustizia.
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