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I giornali rischiano la morte, ci vuole un nuova legge dell’editoria come nel 1981, chiede Raffaele Lorusso

Giornali in crisi, ci vuole “un nuova legge dell’editoria”, chiede Raffaele Lorusso dalle pagine di Repubblica. Si è riprodotta la situazione che negli anni ’70 aveva portato i quotidiani italiani al collasso, finchè nel 1981 l’odiata Democrazia Cristiana varò una legge che li salvò e consentì la nascita di tanti nuovi giornali, a cominciare da Repubblica. Ora i giornali e anche quelli on-line sono in balia di una tempesta che ha le caratteristiche dell’uragano.

Raffaele Lorusso, giornalista di Repubblica, è stato fino al 2023 segretario della Federazione della Stampa, FNSI, il sindacato unitario dei giornalisti italiani.

Nota Lorusso che “il ricorso al Tar di Meta, gigante della rete proprietario di Facebook, per impedire l’applicazione del regolamento di attuazione della direttiva europea sul copyright rientra nella strategia messa in atto in tutto il mondo dai cosiddetti Over the top per continuare a moltiplicare volumi di traffico, fatturati e utili.

“Sarebbe un errore, però, scrive Lorusso, pensare che lo scontro sulla ridistribuzione delle risorse riguardi soltanto editori e giornalisti. La posta in gioco è molto più alta. L’informazione, architrave del sistema democratico, la libertà e il pluralismo dei media e lo stesso lavoro giornalistico si stanno lentamente sgretolando sotto i colpi di una rivoluzione tecnologica globale priva di regole e di certezze.

“Questo cambiamento dovrebbe  fare interrogare e preoccupare anche la politica, spingendola a volare alto piuttosto che a concentrarsi su provvedimenti di cortissimo respiro e dal sapore censorio diretti a limitare il diritto di cronaca.

“Se l’equo compenso che i giganti della rete sono chiamati a riconoscere alle aziende editoriali e a chi vi lavora è il giusto corrispettivo per lo sfruttamento dei contenuti, un quadro normativo adeguato con risorse certe e mirate che accompagnino il settore nella fase di trasformazione sono imprescindibili.

“L’Italia, da questo punto di vista, non è all’anno zero. Sostegni diretti e indiretti ai giornali, alle tv, alle radio e, da alcuni anni, anche ai siti online sono riconosciuti da norme di diverso tenore. Il limite è rappresentato dal fatto che in molti casi non si tratta di misure strutturali, ma di provvedimenti temporanei, la cui sorte è spesso legata a quella di emendamenti parlamentari alla legge di stabilità o al decreto milleproroghe. Il caso della pubblicazione sui quotidiani dei bandi di gara, la cui cancellazione provocherebbe al sistema un danno di circa 49 milioni l’anno, è solo l’ultimo in ordine di tempo.

“Nel nostro Paese è in vigore la legge numero 416 del 1981, la cosiddetta legge dell’editoria, che regola le imprese e le provvidenze per il settore. Come si evince dai documenti custoditi dalla fondazione per il giornalismo “Paolo Murialdi”, prese le mosse dalla necessità di governare un passaggio altrettanto epocale per il mondo dell’informazione e dei giornali in particolare, quello dal piombo alla composizione a freddo.

“Fu il risultato di un lavoro che ebbe per protagonisti la Federazione nazionale della stampa italiana, guidata dal segretario generale Luciano Ceschia, la Fieg presieduta da Giovanni Giovannini e i partiti di governo e di opposizione. Pur nella diversità delle posizioni, erano tutti convinti della necessità di garantire un futuro al settore. Il coinvolgimento, nella fase di stesura, di tre costituzionalisti come Giuliano Amato, Paolo Barile e Enzo Cheli, voluto dalla Fnsi, permise di confezionare un testo che per un ventennio e più ha consentito al sistema di navigare in acque relativamente tranquille.

“La legge 416, per quanto permetta ancora oggi di gestire, anche se sempre più a fatica, processi di crisi e profonde ristrutturazioni aziendali, ha fatto il suo tempo. È illusorio pensare di affrontare la rivoluzione digitale e la sfida dell’intelligenza artificiale con norme scritte più di quarant’anni fa. La politica deve avere il coraggio e la visione per avviare un percorso per nuova una legge dell’editoria che fornisca agli attori del sistema gli strumenti, anche di natura finanziaria, per affrontare il cambiamento, valorizzare il lavoro dei giornalisti e migliorare la qualità dell’informazione.

“Non si tratta di invocare finanziamenti a pioggia né di pensare a operazioni di stampo corporativistico. Il solo tentativo si infrangerebbe contro il muro dell’Ue. Per comprendere le conseguenze economiche, sociali e politiche che la scomparsa, o anche il solo ridimensionamento, di un’informazione libera e pluralista avrebbe per le istituzioni democratiche è sufficiente ricordare la formula coniata qualche anno fa dal Washington Post: Democracy dies in the darkness.

“Occorrono, conclude Lorusso, misure strutturali mirate per sostenere gli investimenti non soltanto nella tecnologia e nell’innovazione dei prodotti, ma anche nel lavoro dei giornalisti, il cui perimetro occupazionale si va restringendo sempre di più. La posizione dell’Italia nelle classifiche internazionali sulla libertà di stampa non è delle più onorevoli. Tocca a governo e parlamento decidere se peggiorarla, portando avanti una politica all’insegna dei tagli e dei bavagli, o provare a invertire la rotta”.

Ora purtroppo accade che la sinistra, al potere, di fatto o di diritto, da 30 anni, dopo ucciso la Dc, in finta alternanza con Berlusconi e la destra oggi al governo siano unite da almeno una cosa, l’odio per giornali, giornalisti, editori che nelle stanze del Potere sognano morti presto, sulla linea tracciata da D’Alema (Non leggete i giornali, guardate la tv, dove le mie parole sono riportate correttamente).

Musica per le orecchie postfasciste della donna di palazzo Chigi che per vendicarsi di un po’ di insulsi quanto inutili attacchi di alcuni giornali non trova di meglio che privare i giornali della pubblicità sugli appalti.

Non è tanto il “bavaglio” sugli atti giudiziari a mettere in crisi i giornali (i nostri della giudiziaria, se lavorassero in Inghilterra, sarebbero ormai al gabbio perenne) quanto la trasformazione del mercato, la preponderanza della tecnologia, l’incapacità degli editori non solo italiani, invece di comportarsi come i polli di Renzo, di elaborare strategie collettive in grado di contrastare i giganti della rete, la strapotenxa di questi ultimi, da anni dominatori della Intelligenza Artificiale mentre qui noi ci chiediamo ancora cos’è oppure la vediamo come i primi “sapiens” vedevano i temporali, e anche il progressivo distacco dei giornalisti dal modo di pensare del popolo.

Per la storia: la legge dell’editoria dell’81 fu il capolavoro di Giovannini e dell’allora giovane Sebastiano Sortino, che da soli, nel disinteresse generali, capovolsero l’impostazione data dal sindacato a una legge che, nelle limitate intenzioni del suo ispiratore, il democristisno di sinistra torinese Carlo Donat Cattin, doveva semplicemente dirottare i soldi della pubblicità della Stampa alla sua Gazzetta del Popolo (poi si accontentò dei denari di Cefis convogliati da un piduista) prima di espropriare la Fiat del suo quotidiano la Stampa.

Arrivò ai giornali una pioggia di miliardi, rinforzata, nel 1987, dagli ancora più abbondanti sussidi elargiti dall’odiatissimo Craxi, che salvò l’Unità. Il resto è cronaca: gli eredi di Togliatti e Berlinguer sono stati capaci di fare chiudere il giornale fondato da Gramsci. Poi vi chiedete perché Meloni ha vinto?
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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