Informazione involontariamente comica in Italia, dove tutto s’equivale: l’invasione dell’Ucraina e le disgrazie di Chiara Ferragni, le canzonette sanremesi e il pogrom del 7 ottobre in Israele, i missili nordcoreani e l’armocromista di Elly Schlein. Recensendo per Italia Oggi il libro Facce di Casta di Giancarlo Perna, Diego Gabutti inizia così.
In altri tempi, prima che l’Italia passasse attraverso lo specchio di Alice e si perdesse nell’iperuranio populista, sarebbe stata satira: ritratti vetrioleggianti dei «mammasanta» al potere, politici di rango e di panza messi in mutande, padreterni del giornalismo e intellettuali fanfaroni trasformati in pipe di gesso da tirassegno.
Ma oggi sono fotocolor senza ritocco, la realtà nuda e cruda. Ogni iperbole (la pennellessa col quale si dipingono i ritratti satirici) è infatti diventata inutile. Perché calcare la mano? Gli onnipotenti hanno la satira incorporata: li guardi, dicono «cheese», poi clic, uno scatto fotografico, e non c’è altro da aggiungere. Fanno tutto da soli.
Prendete le felpe di Matteo Salvini, con su la pelata di Vladimir Putin chiamata ad oscurare la zazzera vintage di Che Guevara, oppure prendete «il presidente Ping» (per Xi Jinping, leader cinese) di Gigetto Di Maio (che nel frattempo è passato tra i dimenticati e trapassati, come i vincitori del Festival di Sanremo il giorno dopo la premiazione, una prece).
Cosa dire di più? A «Ping» e alla felpa ,i due piccioni provvedono da sé.
Non c’è bisogno di metterli in burletta. A un ritrattista satirico, per celebrare capitomboli e vaneggiamenti di simili fulminati, basta e avanza descriverne le gesta con penna impassibile, senza star lì a montare la panna della parodia.
È quel che fa Giancarlo Perna, il maestro indiscusso, negli ultimi trent’anni, di questa speciale ritrattistica, che è sempre stata il fiore all’occhiello dell’informazione, due gradini sopra la cronaca politica, quattro sopra quella culturale, e che oggi è rimasta la sola informazione attendibile.
Se la satira, fino a ieri, affiancava il giornalismo propriamente detto, quello cosiddetto serio e argomentato, ormai da anni lo sostituisce, con ben altra serietà, e con argomenti molto più solidi, come dimostra proprio il nuovo libro di Giancarlo Perna, Facce da casta, da qualche giorno in libreria.
Facce da casta non è soltanto un vasto assortimento di profili ameni, per quanto sia anche questo, ma è a tutti gli effetti un libro di storia, per di più classicamente scritto, e che verrebbe da dire «plutarchesco», se solo esistesse un simile aggettivo.
Va letto, oltre che per spasso, anche e in specie come fonte sicura d’informazioni: una storia d’Italia senza salamelecchi né devozioni né acrimonie né (soprattutto) false indignazioni.
È cioè il contrario esatto delle cronache pro domo propria che vengono ogni giorno fantasticate dalle grandi firme (si fa per dire) delle testate engagé, gazzette che inondano le proprie pagine d’informazione strillata e involontariamente comica, dove tutto s’equivale: l’invasione dell’Ucraina e le disgrazie di Chiara Ferragni, le canzonette sanremesi e il pogrom del 7 ottobre in Israele, i missili nordcoreani e l’armocromista di Elly Schlein.
A questa informazione sciatta e rumorosa, che pontifica e sproloquia senza spessore, senza autorevolezza e ormai senza quasi più lettori, oltre che senza vergogna, si contrappone la tranquilla eloquenza dei ritratti di Giancarlo Perna: il vano cipiglio di Gustavo Zagrebelsky, il salotto barricadiero di Lilli Gruber e Gianrico Carofiglio, il «berluschinismo» d’Urbano Cairo, l’insensata aspirazione al Nobel del giallista Andrea Camilleri, la doppia natura (un giorno simpatico, il giorno dopo un cannibale) di Renato Brunetta, le fisime islamiche di cattolicesimo in affanno di Rosy Bindi, la mirabile antipatia e gl’imbarazzanti trascorsi spionistici del principe delle banalità Corrado Augias, la pelata gagliarda «con un che di mussoliniano» di Pierluigi Bersani, «la brillante parlantina» (e poco altro, aggiungo io) di Giorgia Meloni, l’«ingiustificato sussiego» di Mario Monti, la «sovrabbondante pensione» di Giuliano Amato, mai «prima scelta, eterna riserva per i tempi bui».
Viaggio nell’Italia vera e indubitabile, eppure simile a una terra immaginaria tra Cuccagna e Paperopoli, Facce da casta è un vasto repertorio di ciclopi, sirene, donne barbute e chimere, come nei bestiari medievali.
Non è la stessa Italia, tapina ma dignitosa, che illustrava un tempo nei suoi Incontri Indro Montanelli, quando circolavano ancora mostri e leviatani, mentre oggi abbondano piuttosto nanerottoli e mostricciattoli.
Gl’italiani e arcitaliani raccontati da Montanelli si mettevano in coda per godere dei suoi dileggi. I truzzi della seconda repubblica per lo più s’imbufaliscono quando Perna li onora delle sue attenzioni (alcuni reagiscono a cazzotti, altri negandogli il saluto, e tutti dimenticando presto l’offesa, che più basso è il QI e più da pesce rosso è la memoria). Cosa pretendere, del resto?
Trucida e insignificante insieme, questa è l’Italia sfiatata di Beppe Grillo, che si è creduto un politico, e del suo compare Gianroberto Casaleggio, che si credeva un filosofo, e non era nemmeno un santone, ma tutt’al più un mezzo ufologo.
È l’Italia frivola e cascamorta degli «espedienti per sopravvivere» di Pierferdy Casini, dei silenzi d’Adriano Celentano, dell’associazione antimafiosa (però manesca) di don Ciotti e degli altri «preti di strada, i don Benzi, i don Picchi, i don Gallo, i don Gelmini, i don Mazzi eccetera».
È l’Italia di Giuseppe Conte – questo «Buddha serafico in un mare in tempesta, il fazzoletto tricuspide nel taschino e i gemelli nelle bianche camicie en soie de Chine» – che Perna chiama lo Sciccoso.
Ed è anche l’Italia (tremate) di Piercamillo Davigo, ex Pm e giustiziere mai smobilitato (facciamo conto di vedere in lui, «anche se maschio, la giunonica Dea bendata che ostende la bilancia e impugna il gladio»).
E non dimentichiamo l’Italia, anzi l’Irpinia, di Ciriaco De Mita, l’uomo di cui «l’essenza più vera è la tracotanza», l’ex segretario democristiano che può vantare, nel paradiso dei tracotanti in cui ha preso dimora a 94 anni, nel 2022, d’essersi lasciato dietro le spalle una carriera politica la cui durata deve avere impressionato persino papà Noè (se lì dov’è, il vecchio patriarca non ha di meglio da fare che stare a sentire un beato famoso, a Nusco e dintorni, per i suoi «arzigogoli» e «ragionamendi»).
Tutti costoro – le Facce da casta che via via, con gli anni, hanno perso sempre più peso politico e sostanza umana – credono a quel che ascoltano nei talk show e leggono su Instagram e TikTok e così pensano davvero di essersi resi interessanti con ciò che invece li ha resi insieme ridicoli e spaventosi.
È il loro karma essere narcisisti e creduloni. Non lo troveranno scritto su nessun giornale, esclusi quelli ai quali collabora Giancarlo Perna, e anche lì soltanto nei suoi ritratti allo stesso tempo leggeri e spietati, ma gli attuali papaveroni d’Italia sono come il clown di IT (il romanzo di Stephen King): una pallina rossa sul naso e denti affilati, da orco antropofago.
Non soltanto italiana, naturalmente, ma per quanto ci riguarda – ahinoi – anche troppo italiana, la galleria di mezzibusti e casi umani e facce da casta approntata da Perna è la sfilata da brivido d’una classe dirigente bagonghi, innocua e pericolosa allo stesso tempo.
Tra poco non servirà più che un maestro ritrattista come lui la serva (come merita) di barba e capelli.
Cosa volete dire d’Alessandro Di Battista o di Maurizio Landini che non salti subito all’occhio non appena appaiono in tv o rilasciano un’intervista al giornale amico?
Ma se il giustificato timore, corna facendo, è che vada sempre peggio, che la lingua corsara dei ritratti di Giancarlo Perna diventi oscura e incomprensibile come l’etrusco o il minoico e che ogni senso dell’umorismo vada per sempre perduto, la speranza – ultima a morire – è che la casta bagonghi s’impicchi da sola. Qualche segnale c’è.
Giancarlo Perna, Facce da casta. Luci e ombre del potere, Luni 2024, pp. 320, 24,00 euro.
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