ROMA – L’algebra è davvero necessaria? Giusto a metà dell’estate scorsa un professore di Scienze Politiche della City of New York University, Andrew Hacker, ha posto la questione in termini davvero provocatori (“Is algebra necessary?”, New York Times 28 luglio): obbligare allo studio dell’algebra gli studenti delle scuole superiori scoraggia anche i più meritevoli ed è fra le prime cause di mortalità scolastica.
Seguono le statistiche (basate ovviamente su modelli matematici) che registrano abbandoni ed esclusioni dalle maggiori università anche non scientifiche di giovani studenti per giudizi negativi in algebra. Numeri impressionanti. La tesi è semplice: basta un più abbordabile “ragionamento quantitativo” per intraprendere una carriera umanistica, per fare di conto, decrittare una statistica, fare analisi sociali col supporto delle cifre.
E’ sufficiente, dice Hacker, una infarinatura di aritmetica basata su esempi concreti per leggere i dati sul tasso d’inflazione, o l’incremento degli interesse sul mutuo (ma basta per risolvere il problema, per restare alle cose italiane, il problema degli “esodati” o capire che tipo di pensione ci aspetterà?). Risolvere equazioni, sciogliere polinomi, estrarre radici quadrate, tutte nozioni che i non specialisti avranno dimenticato prima di doverne mai avere bisogno, è inutile e, a quanto pare, dannoso, secondo Hacker. E’ seguito il dibattito: accademici e matematici hanno reagito difendendo l’algebra con argomenti difficilmente confutabili.
Cioè, sono troppe le evidenze che mostrano l’importanza della matematica, dell’algebra e in generale del pensiero complesso e della capacità di ragionare per simboli e astrazioni. Basta darsi un’occhiata intorno per riconoscere il potere degli algoritmi. Nella versione italiana della querelle il difensore d’ufficio della scienza Piergiorgio Odifreddi è stato lapidario nel difendere le ragioni del calcolo, della logica ferrea dei numeri, del pensiero astratto.
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