A Genova dovrebbero leggere con attenzione le pagine scritte da Carlo M. Cipolla (Storia facile dell’economia italiana dal Medioevo a Oggi) e pensarci due volte prima di imboccare la strada della prudenza, mancanza di coraggio, conservazione, rifiuto della innovazione.
Sembra la cronaca (non solo genovese ma italiana) degli ultimi 50 anni.
Il potere e il conservatorismo caratteristici delle corporazioni in Italia bloccarono i necessari mutamenti tecnologici e di qualità che avrebbero potuto permettere alle aziende italiane di competere con la concorrenza straniera.
Secondariamente in Italia i salari erano più elevati che all’estero e non erano compensati da una maggior produttività del lavoro.
Last but not least, completa Cipolla, il carico fiscale sopportato dalle aziende italiane pare sia stato molto più elevato del corrispondente carico che pesava sulle aziende straniere.
C’è un “episodio significativo” che Cipolla racconta. Pochi forse a Genova lo ricordano. Invece dovrebbe essere tema di meditazione laica e religiosa.
Nel corso del Cinque e Seicento, scrive Cipolla, ebbero gran voga e fortuna le grosse compagnie commerciali che ottennero dai rispettivi governi il monopolio dei traffici in una determinata area geopolitica.
Tra questi colossi primeggiarono la Compagnia inglese delle Indie orientali, autorizzata nel dicembre 1600 dalla regina Elisabetta col nome The Governor and Company of Merchants of London trading into the East Indies, e la Compagnia olandese nata nel 1602 col nome di Vereenigde Oostindische Compagnie.
Abbacinati dagli enormi profitti conseguiti da questi due colossi, gruppi di imprenditori costituirono analoghe compagnie in altri paesi d’Europa: nacquero così fra le altre la Compagnie française des Indes e la Compagnia danese delle Indie.
In Italia “alcuni imprenditori genovesi tentarono la stessa impresa.
“Nel 1647 veniva creata in Genova la Compagnia genovese delle Indie orientali con un capitale di 100 mila scudi. Costituita la compagnia sulla carta, gli imprenditori genovesi si scontrarono con una realtà locale sottosviluppata che non poteva reggere al gioco.
“Per prima cosa a Genova non esistevano cantieri che sapessero costruire navi adatte per la navigazione oceanica del tipo usato dalle compagnie inglese e olandese. I genovesi dovettero quindi ordinare la costruzione di due navi adatte all’impresa ai cantieri di Texel in Olanda”.
L’ordinativo fu fatto in tutta segretezza perché era proibito in Olanda costruire navi di tipo olandese per potenze straniere. Ma non c’è segreto di quel genere che potesse e possa reggere. Vedremo tra poche righe cosa accadde.
Ma c’è di più e di peggio, scrive Cipolla.
Ottenute le navi, gli imprenditori genovesi si resero conto che non esistevano in Genova marinai capaci di operare su tali navi nelle difficili navigazioni oceaniche. Dovettero quindi ricorrere all’ingaggio di un equipaggio olandese.
Sciolti questi nodi che dimostravano quanto ormai l’Italia fosse arretrata rispetto alle maggiori potenze europee,
“Le navi salparono da Genova il 3 marzo 1648, ma portoghesi e olandesi – di norma nemici acerrimi – si accordarono per eliminare sul nascere un possibile concorrente e il 26 aprile 1649 una piccola flotta olandese catturò le navi genovesi e le condusse come preda a Batavia”.
Oggi a Genove dintorni si costruiscono navi di super stazza per committenti di tutto il mondo.
Le nuove sfide si chiamano diga, quarto valico, traforo, aeroporto.
Saranno capaci i genovesi di essere all’altezza della generazione dei Piaggio e evitare la fine ignominiosa cui li aveva destinati la morsa delle corporazioni e dei partiti negli anni dal ‘60?
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