Lingua francese e il dribbling di Macron. Il Medio Oriente rischia una guerra incontrollabile-
Il conflitto in Ucraina sembra destinato a durare ancora a lungo e l’Occidente non riesce a governare due crisi dagli esiti ancora imprevedibili. La tragicità della situazione non sfugge a nessuno.
Anche Emmanuel Macron ha fatto qualche passo diplomatico, senza ottenere risultati. Tuttavia, il presidente ha tentato di scacciare i brutti pensieri passando qualche ora a Villers-Cotterêts, una cittadina di diecimila abitanti che ospiterà l’unica istituzione-monumento dell’èra Macron.
Sulla scia di alcuni predecessori (Pompidou, Giscard, Mitterrand, Chirac) il capo dello Stato ha inaugurato la sua creatura, la Cité internationale de la langue française.
Che ci fa un centro internazionale in una località della Piccardia che nessuno, fuori dei confini francesi, conosce ?
Pur essendo originario della regione, Macron non ha scelto Villers-Cotterêts per ragioni personali o di campanile (tra l’altro, il sindaco appartiene al partito di Marine Le Pen).
Molto semplicemente, in quella piccola città il francese è diventata la lingua del paese. Fu Francesco I, il re rinascimentale che chiamò alla sua corte Leonardo, a compiere il passo.
Si trovava in uno dei suoi castelli di caccia, per l’appunto quello di Villers-Cotterêts, quando il 25 agosto 1539 emise una lunghissima ordinanza per riordinare l’amministrazione del regno.
All’articolo 111 il sovrano precisava che, per evitare ambiguità e domande di interpretazione, gli atti giudiziari e amministrativi dovevano essere scritti, anziché in latino, « in lingua materna francese». Il che, all’epoca, significava la lingua parlata nel nord.
La Francia è forse l’unico paese in cui la lingua nazionale sia stata imposta con un atto amministrativo. La dice lunga sul paese, sul ruolo fondamentale nei secoli del suo apparato statale.
Perfino in anni recenti la Cassazione e il Consiglio di Stato hanno considerato l’ordinanza di Francesco I come un testo che fa parte della giurisprudenza corrente.
Logico, quindi, che Macron abbia voluto creare un centro internazionale dedicato alla lingua francese proprio lì. Una scelta che ha suscitato consensi e dissensi. Facile ricordare che se, nel mondo, 320 milioni di persone parlano francese lo si deve anche e soprattutto alle colonizzazioni. Da questo punto di vista, tuttavia, il discorso vale anche per l’inglese e lo spagnolo.
Ma tra gli scettici c’è chi punta il dito contro le frontiere chiuse ai migranti che vengono proprio dall’Africa francofona. Altri temono che la nuova Cité possa essere interpretata come l’apertura di un nuovo dibattito sull’identità francese.
L’entourage di Macron smentisce e ricorda un suo discorso a Lione durante la campagna elettorale del 2017, cioè negli stessi mesi in cui lanciò l’idea del nuovo centro: «Non c’è una cultura francese, c’è una cultura in Francia, diversa, multipla». Così nacque l’idea di Villers-Cotterêts.
Il vecchio castello di Francesco I era diventato una caserma ai tempi di Napoleone, poi un rifugio per i poveri e infine una casa di riposo fino al 2014. Era in pessimo stato e ci sono voluti 211 milioni di euro per ristrutturarlo parzialmente.
Un’ala è ancora da rifare e lo Stato si augura che un gruppo alberghiero accetti la scommessa di vedere la Cité attirare un pubblico numeroso (l’Eliseo spera in 200 mila visitatori all’anno).
Al suo interno ci sarà un percorso ludico e tecnologico per spiegare le origini del francese e la sua storia. I curatori assicurano che Macron, pur avendo visitato due volte il cantiere, non ha messo bocca nella loro interpretazione, anzi.
Alla fine della mostra c’è una presa in giro del francese inglesizzato dei tecnocrati, cui il presidente indulge spesso. Macron non se lìè presa. Inaugurando un grande centro culturale, da lui voluto ancor prima di essere eletto nel 2017, il presidente ha voluto lasciare la sua impronta come tanti suoi predecessori. A dispetto dei tragici avvenimenti di questi giorni.
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