Se ci fosse ancora Piero Ottone avrebbe appena finito di scrivere un libro intitolato “Cento”, come gli anni che compirebbe oggi questo grande giornalista, il più grande nella storia genovese.
E in quel “Cento”, che seguirebbe il bellissimo “Novanta” del 2014, chissà cosa avrebbe aggiunto a tutto quello che ha scritto e fatto scrivere fino al 2017 della sua scomparsa a 93 anni?
Piero Ottone aveva uno stile e principi solidi nel giornalismo che praticava e che erano circondati anche un po’ da un alone mitico.
Già quel nome: che non era il suo di battesimo (Mignanego), cambiato su suggerimento di Massimo Caputo, direttore della Gazzetta del Popolo”, il primo approdo del futuro grande direttore e maestro.
Poi quella fama di una coerenza professionale e di una impostazione granitica per tutta la vita negli articoli, nei giornali, nei libri. Una secchezza inesorabile di linguaggio, una precisione millimetrica nel racconto e quel timbro ai suoi giornali, quelli diretti da lui, che poi sono stati solo due “Il Secolo XIX” dal 1968 al 1972 e “Il Corriere della Sera” dal 1972 al 1977. E gli altri che ha “sorvegliato” nei suoi incarichi nel mondo editoriale nel quale era uno dei “principi” indiscussi.
Due direzioni non certo lunghe, ma molto incisive, rivoluzionarie al punto da diventare il suo marchio per sempre.
Il giornale ligure portato da 80 mila copie a 120 mila, il “Corriere della Sera” spogliato del suo paludamento storico, capovolto nella sua costruzione, adeguato al tempo moderno che imponeva scelte diverse di notizie, di scrittura, di impostazione e di collaborazioni.
Piero diceva cinicamente che alla fine lui sarebbe stato ricordato solo per due cose: “Aver fatto scrivere Pier Paolo Pasolini sul “Corriere” e per avere “licenziato” Indro Montanelli”.
In realtà non è vero perché la sua figura è proprio segnata, non da singoli episodi anche molto discussi, ma da una continuità di stile e di insegnamento che ha messo segnato non solo quel “Secolo XIX” e su quel “Corriere”, tanti altri giornali e sopratutto tanti giornalisti della sua e di altre generazioni successive.
Ho avuto la fortuna di essere tra questi e di avere assorbito quella cultura del giornalismo per tanto tempo e direttamente da lui con il quale abbiamo prima mantenuto a galla “Il Lavoro “ di Genova e poi trasformato quella testata storica nell’edizione ligure di “Repubblica”, un prodotto che c’è ancora a oltre trent’anni di distanza.
Operazioni favorite da una compagine editoriale forte, raffinata, di grandi competenze che aveva portato “Repubblica” a essere il primo quotidiano nazionale, a sfiorare vendite record. sopra le seicento mila copie al giorno e costruito una galassia di giornali del gruppo Finegil ramificato in tutta Italia.
In questo gruppo di personaggi, tra editori e grandi dirigenti e superdirettori, come Carlo Caracciolo, Eugenio Scalfari,Mario Lenzi, Marco Benedetto, per citare solo i vertici, Piero era la “mano” giornalistica, non solo la garanzia assoluta.
“Il tuo giornale questa mattina brilla” – ti confortava Piero, quando le cose erano andate bene.
Ma c’erano anche i giorni nei quali ti arrivava la sua osservazione puntuta, sempre educata ma “forte”.
Era un grande organizzatore strategico delle pagine, dei collaboratori, della linea che il giornale doveva prendere.
“Schierati sempre quando c’è una discussione in città, prendi posizione, fai capire come la pensiamo, spaccherai in due le opinioni, ma sarai fortemente riconoscibile”, suggeriva in quei tempi nei quali la sfida frontale era con “Il Secolo XIX”, il giornale della città, della maggioranza dei lettori.
Insomma insegnava a “attaccare le notizie” ma in tutti i sensi, non solo nella scrittura, ma nella diffusione, nel loro lancio.
E poi non c’erano tabù, notizie da nascondere o marginalizzare. Si pubblicava tutto, sempre e guai a sbagliare i particolari e a non spiegare bene quello che si raccontava.
Un giorno di febbraio la Liguria fu scossa da una grande mareggiata, che cercammo di descrivere il meglio possibile, raccontando delle onde che scavalcarono perfino la Chiesa di Camogli, proprio sotto la casa di Piero.
La critica arrivò come una frustata secca: “Non avete spiegato bene quale vento soffiava, quanto alta era l’onda, come era salito il mare……”
Ogni sabato Piero scriveva il suo corsivo in prima pagina, trenta righe non di più. Poteva sembrare un piccolo esercizio di presenza dell’ex grande direttore, che amava continuare a scrivere , a firmare. Niente affatto: quel pezzettino era il frutto di una discussione di tutta la settimana sull’argomento da scegliere, sul filone da seguire.
Era un modo per stanarti e mantenere teso il filo del racconto quotidiano. Lo faceva su “IL Lavoro-Repubblica” e ovviamente sul “Venerdì” di “Repubblica” nazionale con la rubrica “Vizi e Virtù”.
Certo questo era l’Ottone nella parte finale della sua lunga vita professionale, quando il suo tempo era dedicato anche ai tanti, tantissimi libri che ha scritto, ai consigli d’amministrazione delle aziende editoriali del grande gruppo di cui faceva parte.
Ma anche allora, anche nei momenti di impegno meno visibili dei grandi incontri della sua vita professionale, delle sue esperienze di grande corrispondente all’estero, il primo a Mosca nella storia italiana, poi Londra, poi le grandi inchieste in Italia per il “Corriere”, lo stile non cambiava di una virgola.
Era Ottone e oggi ci manca. E vengono i brividi, pensando a “Cento”, il libro immaginario dei cento anni che compie oggi, se si ricorda una delle sue battaglie finali, quando si impegnava per ricordare a tutti che l’Occidente era in grande crisi, che il mondo stava cambiando, come si raccontava nel libro di Oswald Spengler, una delle sue passioni.
Aveva ragione come sempre, ma non lo avrebbe scritto, perché la rivendicazione non era nel suo stile, come la personalizzazione. La notizia, l’analisi erano solo per il lettore, l’autore era uno strumento da affinare, da far rispettare, da perfezionare, ma guai a farlo emergere nel racconto.
Ottone, o uno come lui, non ci sono più in questo giornalismo di tutti, di fake news, di approssimazioni, di notizie raramente verificate, di giornali che si spengono come lumicini.
Non lo avrebbe sopportato. Sarebbe salito sulla sua barca, con il suo equipaggio di amici fidati, sempre pronto con la rotta del prossimo viaggio già tracciata per chissà dove. “Fai un bel giornale mentre sono in mare…..” diceva poco prima di salpare con un arrivederci tranquillo di chi è contento di andare a prendere il vento con la sua vela.
Il guaio è che questa volta Piero non torna e noi possiamo veleggiare solo con i suoi ricordi.
Un articolo di Carlo Rognoni…Piero Ottone, il direttore tutto d’un pezzo che amava il mare e Camogli
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