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Impiantati i primi elettrodi che risvegliano mani e braccia rimasti paralizzati dopo l’Ictus

Impiantati i primi elettrodi che risvegliano mani e braccia rimasti paralizzati dopo un ictus. Due donne di 31 e 47 anni, grazie alla stimolazione elettrica del midollo spinale, sono le prime due pazienti a sperimentare questa nuova possibilità terapeutica, messa a punto dal gruppo di ricerca guidato dalle Università americane di Pittsburgh e Carnegie Mellon.

Ictus, due italiani coordinatori dello studio

Tra i coordinatori dello studio, pubblicato sulla rivista Nature Medicine, anche due italiani che lavorano all’Università di Pittsburgh: Marco Capogrosso ed Elvira Pirondini.

“Questo è stato un primo studio pilota che abbiamo dovuto interrompere dopo 4 settimane”, spiegano all’agenzia Ansa i due ricercatori. “Dai National Institutes of Health (Nih) abbiamo già ottenuto un finanziamento di 8 milioni di dollari per estendere la sperimentazione e speriamo di arrivare ad un uso clinico di questa tecnologia tra 5-10 anni”.

Gli elettrodi impiantati nel collo

Coordinati anche da Douglas Weber della Carnegie Mellon, i ricercatori hanno impiantato un paio di elettrodi al livello del collo, che forniscono impulsi per attivare le cellule nervose all’interno del midollo spinale. In questo modo, si può amplificare l’attività dei muscoli indeboliti dall’ictus, lasciando comunque al paziente il pieno controllo del movimento, che avviene solo quando lo decide lui.

I test hanno mostrato un immediato miglioramento: le due donne sono riuscite ad afferrare oggetti e aprire un lucchetto, compiti prima impossibili. I pazienti colpiti da ictus, grazie all’applicazione di questi elettrodi, risvegliano mani, braccia e anche gambe.

Gli elettrodi non bypassano la lesione

“Di solito, quando si ha una lesione al midollo spinale, si cerca di bypassare l’interruzione per ristabilire la trasmissione degli impulsi nervosi”, ossevano Capogrosso e Pirondini. “Con l’ictus, però, la rottura che avviene tra le cellule nervose del cervello e del midollo spinale è incompleta, quindi – proseguono – invece di rimpiazzare del tutto il segnale abbiamo deciso di amplificarlo: in questo modo, i pazienti non devono imparare da zero ad utilizzare questa tecnologia, usano semplicemente il loro cervello”.

Per Silvestro Micera, dell’Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che è stato il mentore dei due ricercatori, “si tratta di un esperimento molto interessante dal punto di vista delle potenzialità cliniche e che vede soluzioni bioingegneristiche molto raffinate. Con questo studio – dice Micera – si è passati dalle lesioni del midollo spinale ai danni al sistema nervoso centrale causati da un ictus, quindi dagli arti inferiori a quelli superiori, ma la complessità del controllo richiesto in particolare per i movimenti della mano aggiunge un grado di difficoltà maggiore”.

Il 75% delle persone colpite da ictus, infatti, riporta un deficit duraturo nel controllo motorio del braccio e della mano, che limita gravemente l’autonomia fisica e per il quale al momento non c’è cura. Nonostante l’ostacolo, però, i progressi ottenuti sono stati notevoli: “Una delle due pazienti ha recuperato quasi completamente, è riuscita anche a disegnare una mappa e forse – dicono Pirondini e Capogrosso – i miglioramenti visti nella seconda paziente sono stati ancora più significativi perché era affetta da una paralisi pressoché totale”.

Miglioramenti anche dopo 4 settimane

Lo studio ha portato anche a un risultato del tutto inaspettato: “Abbiamo scoperto che i miglioramenti persistevano anche quando la stimolazione era stata disattivata, dopo quattro settimane”, commentano i due ricercatori italiani, e il controllo avvenuto un mese dopo la fine della sperimentazione ha evidenziato che le due pazienti non erano regredite.

Questo apre finalmente una possibilità per il futuro delle terapie per l’ictus: “Grazie a questo primo successo – concludono i due ricercatori – speriamo di aumentare l’attenzione sull’ictus, un problema estremamente sottovalutato che, a livello globale, colpisce un adulto su quattro di età superiore ai 25 anni”. 

Daniela Lauria

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