Dopo avere salvato milioni di vite umane nella pandemia di Covid-19, i vaccini a mRna si preparano a diventare le armi per combattere altre malattie, prime fra tutti i tumori, ma anche la malaria e la tubercolosi. La tecnologia che li ha resi possibili affonda le radici negli anni ’80, con la tecnica chiamata ‘trascrizione in vitro’, che permetteva di ottenere molecole di mRna senza ricorrere alle colture cellulari.
I vaccini a mRna
Si aprivano improvvisamente tante strade nuove e i vaccini erano fra queste, ma con qualche ostacolo perché la tecnica doveva essere ancora perfezionata e l’mRna così ottenuto causava infiammazioni. L’entusiasmo inziale si spense rapidamente, ma non abbastanza da scoraggiare la biochimica ungherese Katalin Karikó dal continuare a esplorare nuove strade in cerca di applicazioni terapeutiche. Un lavoro enorme, quello che Karikò portava avanti, ma che non convinceva affatto chi all’Università della Pennsylvania erogava i fondi per la ricerca.
L’unico a considerare il lavoro di Karikò era l’immunologo Drew Weissman, che allora lavorava sulle sentinelle del sistema immunitario, chiamate cellule dendritiche. Weissman si era accorto, infatti, che le cellule dendritiche riconoscevano l’mRna ottenuto con la trascrizione in vitro come una sostanza estranea all’organismo, ma c’erano ancora molti problemi da risolvere legati alla comparsa di infiammazioni. Così Karikó e Weissman pensarono di sostituire una delle quattro basi della molecola di Rna, l’uridina, con una pseudo-uridina. Le infiammazioni sparirono e i due ricercatori ebbero la certezza di trovarsi davanti a un risultato importante per future terapie.