Serie tv Rai 1 sul Generale Dalla Chiesa: 40 anni dopo la sconfitta del terrorismo, è ancora difficile raccontare quella fase della storia d’Italia.
Per noi che l’abbiamo vissuto, è stato il periodo più buio del Dopoguerra prima del Covid, lungo almeno dieci anni, dalla coda del Sessantotto all’inizio degli anni Ottanta, tra il boom degli anni Sessanta e il tempo del cosidetto “ riflusso”, fino all’inizio dei Settanta e i Novanta della sopravveniente Tangentopoli.
Ne abbiamo rimosso il ricordo con una velocità incredibile. Cancellati, spazzati via dalla memoria collettiva, da Piazza Fontana, bomba nera nella Banca dell’Agricoltura di Milano, a via Fracchia di Genova, con la fine sanguinosa della mitica colonna genovese delle Br, scoperta dai carabinieri del generale Dalla Chiesa.
Le nuove generazioni non credono ai loro occhi quando vedono le immagini, spesso in grigio, di quella lunga storia di terrorismo nero e rosso, che funestò l’Italia con le stragi sui treni, il rapimento e l’uccisione del politico più importante del Dopoguerra, Aldo Moro. E tanti delitti, bombe, gambizzazioni, esecuzioni sommarie, processi del popolo, rapimenti con le istituzioni nel mirino sempre.
In un delirio di rivendicazioni, proclami, volantini pieni di diktat politici, di estremismi di una parte e dell’altra.
Quasi cinquecento morti, migliaia di feriti, le istituzioni tenute in scacco per anni, il rischio di un golpe da una parte e dall’altra. Quello della rivoluzione proletaria, con operai e studenti al seguito delle bande armate, in un arcipelago di sigle, dalle Br, a Prima Linea, ai Nap a Azione Rivoluzionaria, ai Nar… .
Con i fiancheggiatori di Autonomia, border line tra il mondo extraparlamentare e quello clandestino e assassino.
Tutto questo e poi siamo incapaci, o per lo meno in difficoltà, perfino a raccontarlo, come in parte dimostra la fiction televisiva che sta trasmettendo Rai 1 in prima serata con ben otto puntate, “Il nostro generale”, dedicata a Carlo Alberto dalla Chiesa, il supercarabiniere. Egli alla fine sconfisse il terrorismo rosso delle Brigate rosse e fu barbaramente ucciso dalla mafia. Quando lo Stato gli affidò l’altro compito “impossibile “ di quegli anni, inviandolo a Palermo per combattere “Cosa nostra”.
La fiction è molto “volenterosa” nelle sue intenzioni di centrare la ricostruzione di anni tanto pesanti sulla figura del generale, affidata a un Sergio Castellito, certo dotato di grande talento, ma non sufficiente a far decollare una narrazione nella quale mancano pathos e consequenzialità politica e sociale.
Il tentativo di passare attraverso le gesta del mitico carabiniere per rievocare una fase italiana così complessa riesce solo nella misura in cui racconta proprio la storia “militare” dell’ufficiale e della sua bella famiglia, intorno alla quale ruotano tutti gli avvenimenti.
Il racconto non riesce ad avere quel ritmo drammatico che i fatti, diligentemente recuperati e messi in sequenza dal regista, hanno avuto. Sono come tanti fotogrammi della sfida tra il generale e i terroristi.
Il sequestro del capo del personale della Fiat Amerio, liberato dopo una settimana dal carcere del popolo. Quello ben più pesante del magistrato genovese Mario Sossi, liberato dopo 40 giorni in circostanze ancora un po’ oscure….Poi il resto dello scontro tra i nuclei speciale di Dalla Chiesa e le allora totalmente misteriose colonne Br, divise nella loro compartimentazione.
È come se la vicenda fosse proprio un match tra Dalla Chiesa e la sua “squadra” di investigatori e le Brigate Rosse, che emergono attraverso i capi storici, Curcio, Franceschini, Mara Cagol, Mario Moretti e gli altri.
Lo Stato, la politica, appaiono sfuocati, sullo sfondo, o attraverso gli scontri con i vertici militari o con qualche sottosegretario al Ministero degli Interni.
Le istituzioni, che erano così clamorosamente sotto scacco, sembrano capricciose, impegnate sopratutto a “contenere” il successo di dalla Chiesa, quasi a respirare di sollievo davanti agli insuccessi, come l’evasione di Renato Curcio dal carcere di Casale Monferrato. E a non esaltare i successi, come le prime catture di terroristi. Si torna al clima delle famosa intervista al generale fatta da Giorgio Bocca alla vigilia dell’agguato mortale nella quale Dalla Chiesa denunciava la distanza tra la sua azione a Palermo e la classe politica.
Qualche critico ha parlato, esaminando il film, di un eccesso di “complottismo”, come atteggiamento che alcune ricostruzioni degli “anni di piombo” hanno avanzato nel percorso di ricostruzione come questa del “Nostro generale”. E anche come quella, appena trasmessa, del film di Bellocchio “Esterno notte” sul caso Moro. E qui siamo nei confini del rischio terrorismo, la mafia verrà dopo.
Certamente “Il nostro generale” non cade in questo atteggiamento di denuncia del complottismo, seppure in diversi passaggi, soprattutto per bocca di Dalla Chiesa stesso, le critiche alla politica e alle sue manovre durante “gli anni di piombo”, sono più o meno evidenti.
Il film di Bellocchio, invece, sparava a zero sul mondo politico di quegli anni difficili, dimenticando che in fondo se non ci fosse stata quella politica a piede fermo, la battaglia al terrorismo chissà quando sarebbe finita.
Il ministro degli Interni “ombra” di quel tempo, cioè Ugo Pecchioli del Pci, non passò per caso e segretamente al generale i nomi dei fuoriusciti del suo partito per aiutare le indagini che non si smuovevano da un binario morto. Lo fece per collaborare a fronteggiare una emergenza nazionale, un attacco vero e proprio alla democrazia dei partiti.
Addebitare la morte di Moro a una decisione di quella politica anti compromesso storico sarebbe un errore grave.
Tutto questo dimostra, però, che ricostruire il terrorismo, sia con le fiction sia con i film, ma anche con altre opere dell’ingegno che per ora mancano, è un’operazione ancora molto complicata. Alla quale, trenta-quaranta anni dopo, sarebbe il caso di mettere mano.