Alcune recensioni non hanno bisogno di essere scritte, nel senso che esistono libri capaci di raccontarsi da soli.
È sufficiente citarne letteralmente delle porzioni e tutto quel che deve accadere, dell’empatia tra libro e lettore, accade. Sono testi che hanno una forza indipendente da quello che si può scrivere su di loro. Al recensore non rimane altro che organizzarne alcuni contenuti, puntellarli tra di loro, senza aggiungere altro.
È questo il caso del saggio “L’ultimo treno. Racconti del viaggio verso i lager” scritto dallo storico Carlo Greppi e pubblicato nel 2012. Un libro forse unico nel suo genere, fatto di dolore e speranza, un’umanità risucchiata dall’inferno e poi tornata indietro, chi ha visto cosa è stato ed ha trovato la forza per raccontarlo.
“Tra il settembre del 1943 e l’inizio del 1945, per buona parte dei venti mesi nei quali la penisola è spezzata in due, divisa tra occupazione e liberazione, migliaia di italiani, uomini e donne di ogni età e condizione sociale, che in prevalenza arrivano dai campi di transito o dalle carceri dell’Italia centro-settentrionale, vengono raggruppati, contati e deportati. Fin dalle sue battute iniziali, il viaggio che comincia si prefigura sovente drammatico” (p. 12).
“Quasi sempre – scrive Primo Levi ne I sommersi e i salvati – all’inizio della sequenza del ricordo sta il treno che ha segnato la partenza verso l’ignoto, non solo per ragioni cronologiche, ma anche per la crudeltà gratuita con cui venivano impiegati ad uno scopo inconsueto quegli (altrimenti innocui) convogli di comuni carri merci. Non c’è diario o racconto, fra i molti nostri, in cui non compaia il treno, il vagone piombato, trasformato da veicoli commerciali in prigione ambulante o addirittura in strumento di morte” (p. 27).
“Qual è stato il significato di quel viaggio verso l’ignoto? E, prima ancora del suo significato, cosa ha voluto dire vivere per ore, giorni, su quei treni che scivolavano o correvano oltre le Alpi, verso la Germania nazista e i territori a essa annessi o occupati?” (p. 9).
Carlo Greppi ha lavorato su 160 testi prodotti da 120 sopravvissuti, 102 uomini e 18 donne.
“Il vagone bestiame ci accolse, dopo una breve corsa per Torino annegata nel sonno e nella bruma (i nostri occhi erano diventati brucianti per lo sforzo di vedere, di scorgere qualcosa che riempisse il nostro pensiero delle ultime visioni care, degli ultimi ricordi). Ci stivarono in sessantotto in uno spazio che non consentiva ad un buon terzo di noi di stare seduti. Quando la portiera si rinchiuse, ghigliottinando l’ultimo panorama torinese, vagoni qualunque, binari qualunque, anonime mura sbrecciate ma ancora casa nostra, ancora nostra terra, disponemmo dei turni per consentire un riposo a rotazione a tutti quanti” (p. 14).
“Passammo la notte sul Brennero. Il freddo era terribile e noi, per infonderci calore, ci tenevamo stretti, abbracciati fortemente gli uni con gli altri. In un solo abbraccio io sentivo palpitare i cuori di tutti i miei compagni, palpitare d’ansia per il destino ignoto a cui andavamo incontro” (p. 32).
“Vi era chi imprecava contro i fascisti, che dopo averci arrestati ci avevano consegnati allo straniero e lo coadiuvavano persino nella sua disumana opera di deportazione. Qualche altro confidava nell’alleanza dei fascisti con i nazisti, per cui credevano che a noi sarebbe stato riservato un buon trattamento. Ma i fatti hanno sempre dimostrato che il governo fascista era solo una larva di governo, totalmente asservito alla volontà dello straniero, e che non c’era da aspettarsi da esso nessuna protezione” (p. 49).
“Ci avrebbero portati a lavorare? E dove? Ci avrebbero internati in un campo di concentramento? Campo di concentramento allora non aveva il significato terribile che ha oggi. Era un posto dove ti portavano ad aspettare la fine della guerra; dove probabilmente avremmo sofferto freddo e fame, ma non erano cose del tutto nuove per noi, dove ci avrebbero fatto lavorare… Niente ci preparava a quello che sarebbe stato il Lager” (p. 73).
“Lungo le banchine della stazione, soldati tedeschi con il mitra in mano spintonavano poveri anziani che, curvi sotto il peso di valigie , di ceste enormi, procedevano più lentamente degli altri. La confusione che regnava era tanta. Si urlavano nomi, le voci si intrecciavano, confondendosi: su tutte, risaltava il pianto dei bambini. Per molti di loro, quel pianto sarebbe stato l’addio alla vita. Il convoglio si mosse lentamente verso una meta sconosciuta, portando con sé quel carico di sofferenza e dolore. Eravamo circa trecento, siamo sopravvissuti in ventinove” (p. 81).
“Arrivati a Innsbruck fummo incaricati, Renato e io, di portare il pentolone del caffè alle persone dei diversi vagoni. Così, con la morte nel cuore, vedemmo la targa «Auschwitz» sul vagone dove c’erano i miei. Il nostro riportava un nome sconosciuto, Buchenwald, e un altro nome sconosciuto era indicato su un vagone di donne: Ravensbrück. La destinazione della maggior parte dei vagoni era Auschwitz. I vagoni furono separati” (p. 83).
“Ma il vero dramma sono i bisogni corporali; il freddo polare fa da stimolante e le vesciche stanno per scoppiare, però è stato concordato da noi di trattenere il tutto finché non ci apriranno. Ci mancherebbe altro, non c’è già posto per noi… Finalmente l’agognato mattino arriva, ad una ennesima sosta sentiamo vicino il passo delle sentinelle, ora ci apriranno. Niente! Ci mettiamo a gridare, battiamo i pugni contro le pareti, invochiamo e quelli si mettono a ridere a crepapelle. Vigliacchi!” (p. 127)
“Nessuno ci portò acqua o viveri. Se solo una mano si sporgeva dagli sfiatatoi che erano stati chiusi con il filo spinato, i militari sparavano. Intanto la sete cresceva, ci divorava. I carri, lasciati per ore sotto il sole o nell’afa delle gallerie senz’aria, erano come fornaci roventi” (p. 135).
“Il viaggio stesso sembra già una morte lenta” (p. 151).
“L’arrivo d’un «trasporto» non era mai sprovvisto di drammaticità, gli accompagnatori uccidevano coloro che non potevano più camminare” (p.168).
“Ora si legge sui libri e sui giornali che la popolazione tedesca non sapeva nulla, ma io non posso accettare questa affermazione e dico chiaramente come stavano le cose. Durante la nostra marcia di trasferimento, dalla stazione al campo, attraversammo un paese e donne e bambini ci venivano vicini, ci sputavano addosso, ci colpivano gridandoci: «Badoglio… Banditi… Traditori»” (p.157).
“Il fuoco macabro davanti, a sinistra sul grande piazzale l’agitarsi di migliaia di donne nude, le grida da dentro le baracche, il rombo delle cannonate, l’odore terribile di carne bruciata: nessun maestro moderno o antico avrebbe potuto immaginare un quadro più impressionante. Pareva un ultimo giudizio a una danza macabra degna di un Breughel. In questa atmosfera tra l’incubo e la realtà prendevamo congedo dalla nostra vita, dalla nostra personalità di prima. La mattina ci chiamarono sul gran piazzale. Avevano deciso di farci passare la selezione. Ora tocca a noi” (p. 176).
“Il viaggio verso i lager si è rivelato un percorso di cambiamento per i deportati che hanno visto le categorie della vita precedente rarefarsi. La trasformazione è avvenuta: «Non siamo già più di questo mondo», scrive Piazza. Scompaiono i compagni di viaggio, diventano dolorosi i ricordi e, negli attimi angoscianti che precedono la baracca, crollate le categorie decifrabili, scompariamo noi” (p. 177).
Dalla quarta di copertina: “Gli scritti dei deportati si rincorrono in un inedito mosaico memoriale, schiudendo ai nostri occhi una geografia della sofferenza, che ci commuove e ci indigna. E che ha molto da dire al nostro presente”.
Libri che si raccontano da soli.
“L’ultimo treno. Racconti del viaggio verso i lager”, di Carlo Greppi, Donzelli Editore, pp.282, formato cartaceo €18,00.
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