A Cassius Clay rubarono la bici diventò Muhammad Ali pugile

A Cassius Clay rubarono la bici diventò Muhammad Ali pugile
A Cassius Clay rubarono la bici diventò Muhammad Ali pugile. Nella foto del 1967: il campione annuncia che non andrà in guerra in Vietnam

NEW YORK – Muhammad Ali, nato Cassius Clay, morto venerdì sera, 3 giugno 2016, in un ospedale di Phoenix, Arixona, a 74 anni di età dopo aver sofferto per 30 anni del morbo di Parkinson. 

Cassius Marcellus Clay Jr., diventato uno dei più grandi pugili pesi massimi della storia dopo avere vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma del 1960, era nato a Louisville, nel Kentucky (Usa), il 17 gennaio 1942, da una famiglia che comprendeva insegnanti, musicisti, artigiani; la madre faceva la cuoca e la donna di servizio, il padre dipingeva insegne.

È  stato una delle personalità più famose del pianeta e una delle figure di maggiore spicco nella storia della seconda parte del ventesimo secolo e non solo per lo sport ma anche per la causa pacifista e la lotta per la emancipazione dei neri in America:

rifiutò la coscrizione per il servizio militare di leva durante la guerra del Vietnam dicendo: “I ain’t got nothing against them Vietcong”, Non ho nulla contro quei Vietcong,

– respinse l’integrazione razziale durante le lotte per i diritti civili, fu un campione della causa dei neri anche se, con una certa incoerenza, non mancò di ironizzare col suo avversario  Joe Frazier chiamandolo “il gorilla”, proprio perché nero,

– si convertì dal cristianesimo all’Islam e cambiò il suo nome, da quello da schiavo di Cassius Clay a Muhammad Ali, che gli fu attribuito dalla setta nera separatista cui aderì, noti come i musulmani neri, la Lost Found Nation od Islam (Nazione persa e trovata dell’ Islam),

– fu bandito dal ring per i suoi principi pacifisti e per questo diventò una leggenda, una specie di santo laico, rispettato per avere rinunciato a tre anni almeno di carriera come pugile e un enorme numero di milioni di dollari ,

– affrontò il male incurabile con coraggio e dignità e per questo venne ammirato,

– fu gentile e disponibile con tutti in pubblico e per questo fu molto amato dalla gente comune.

Muhammad Ali, ha scritto sul New York Times Robert Lipsytejune in un “coccodrillo” che  un piccolo capolavoro di giornalismo, è

“stato il più emozionante, se non il migliore, peso massimo di tutti i tempi, portando sul ring uno stile di boxe fisicamente lirico, non ortodosso, che fondeva velocità, agilità e forza con una armonia mai raggiunta da pugilatore alcuno prima di lui”.

Ma Muhammad Ali

“era ben più della somma delle sue doti atletiche. Una mente agile, una personalità prorompente, una autostima arrogante e un insieme di convinzioni in evoluzione hanno generato un magnetismo che il solo ring non poteva contenere. […] Ali è stato una superstar polarizzatrice come mai lo sport mondiale ha prodotto, ammirato e vilipeso negli anni ’60 e ’70 per le sue prese di posizione politiche e sociali […] prese come serie minacce dall’establishment conservatore e considerato che nobili atti di sfida dalla opposizione liberale”.

Muhammad Ali ha preso molto delle sue successive convinioni dalla educazione paterna. Cassius Clay senior attribuiva alla discriminazione razziale il fatto di non aver potuto fare il salto ad artista di fama. La sua frase preferita, “Sono il più grande”, tornò anni dopo nelle frasi preferite del figlio.

Un altro fatto cui Muhammad Ali riconduceva la sua scoperta della identità razziale furono le foto di Emmet Till, un ragazzino negro di 14 anni in vacanza da Chicago nel Mississippi, ucciso nel 1955 per un flirt con una bianca. L’allora Cassius Clay aveva la stessa età e le foto di quel coetaneo, nero come lui, brutalizzato dai killer bianchi, gli si impressero nella memoria.

Erano anni duri per i neri in America, la segregazione era una realtà ben presente ovunque, anche nella scuola, lo stesso Muhammad Ali ne fu vittima: ebbe sempre difficoltà a leggere, confessò di non avere mai letto un libro, nemmeno quelli con la sua firma e nemmeno il Corano, dui cui aveva mandato a memoria brani.

Ad avviare Cassius alla boxe fu il furto della sua nuova bicicletta rossa. Il poliziotto che raccolse la denuncia gestiva anche una palestra e quando Cassius promise di fare a pezzi il ladro, il poliziotto, Joe Martin, gli suggerì di imparare prima a tirare di boxe. Martin fu il suo primo allenatore, per 6 anni, che lo convinse a “scommettere la vita” sulle Olimpiadi di Roma del 1960.

La medaglia d’oro non servì a molto al suo paese per la vita di tutti i giorni. Lo chiamavano “Olympic nigger”, il negro olimpico e nei ristorani eleganti non lo lasciavano entrare. Furono però proprio dei bianchi, undici milionari che si consorziarono per finanziarlo nel Louisville Sponsoring Group e lo mandarono a scuola di pugilato da Angelo Dundee a Miami, in Florida.

Finì sulla copertina di Time nel 1961, dopo solo 15 incontri, tutti vinti. Tre anni dopo, il 25 febbraio 1964, affrontà a Miami il campione in carica, Sonny Liston, nero anche lui, dato per favorito 7 a 1. Alla vigilia dell’incontro arrivarono a Miami i Beatles e fu l’occasione per quello che oggi sarebbe un selfie. All’incontro assistette Malcom X, fugura mitica nell’irredentismo nero, che sarebbe stato ucciso un anno dopo in circostanze mai chiarite fino in fondo.

La cronaca del match è tutta per Cassius Clay, col suo metro e 90 e 107 chili più alto e grosso di Sonny Liston. Ci fu aolo un momento brutto per Clay, quando sentì pungere gli occhi e pensò si trattasse di veleno. Non voleva più continuare e il suo allenatore dovette spingerlo a forza in mezzo al ring. Era il quinto round. Due riprese dopo, Liston si accasciò sul suo sgabello, il braccio sinistro pendeva senza forza: si era strappato i muscoli cercando di colpire Clay e andando a vuoto.

“Rimangiatevi le vostre parole! Ho scosso il mondo! Sono il re del mondo!” gridò Cassius Clay ai giornalisti.

Due anni dopo, il 17 febbraio 1966, la chiamata al servizio militare. La versione ufficiale  che Cassius Clay, in un primo tempo esonerato in base ai test attitudinali e di intelligenza, venne poi considerato abile per un abbassamento del livello richiesto. C’è però anche chi ha notato la coincidenza col fatto che il contratto con gli 11 finanziatori bianchi era scaduto e erano subentrati alcuni appartenenti alla sera del Musulmani neri. Cassiu Clay era diventato Muhammad Ali. Due pugili neri, Floyd Patterson e Ernie Terrell, che avevano insistito a chiamarlo Cassius Clay, non solo subirono sul ring pesanti suonate ma furono anche oggetto del suo scherno.

Alla leva, Cassius Clay – Muhammad Ali oppose, nel 1967, l’obiezione di coscienza, ma fu condannato e fu spogliato del titolo e tenuto lontano dal ring per 3 anni.

La Corte suprena Usa riconobbe il suo buon diritto il 28 giugno 1971. Era già tornato a battersi, grazie all’intervento di un uomo politico di colore di Atlanta, Georgia. Aveva già 29 anni. Era il 26 ottobre 1970. Fu una notte di estrema mondanità. C’erano Coretta King, Bill Cosby, Diana Ross, Jesse Jackson, Sidney Poitier. L’avversario, il bianco Jerry Quarry, andò doverosamente e rapidamente al tappeto.

Il grande rientro fu nel 1971, pochi mesi della assoluzione definitiva. Muhammad Ali incontrà al Madison Square Grden di New York, Joe Frazier. Fu, ricordano le cronache, una serata all’altezza dell’epica, con Norman Mailer che prendeva appunti e Frank Sintra che faceva il fotografo per Life. Vinse Frazier ai punti, dopo 17 riprese.

Muhammed Ali dopo quella volta combatté 14 incontri, vincendone 13, inclusa una rivincita con Frazier, prima di incontrare George Foreman, il nuovo campione del mondo, definito “una versione più grossa e più terrificante di Liston”.

Il match  è entrato nella leggenda. Era il 30 ottobre 1974, lo sfondo era l’Africa nera, lo Zaire di Mobutu Sese Seko. Vinse Muhammad Ali per Ko all’ottava ripresa. Ne fu fatto un film (“When we were Kings”) che vinse l’Oscar nel 1997.

Seguirono altri 10 incontri, tutti vittoriosi, nel giro dei 3 anni successivi fino a quando arrivò la terribile diagnosi del morbo di Parkinson.

Nel frattempo c’era stato un invito alla Casa Bianca da parte del presidente Gerald Ford. Fu un momento di svolta per la vita pubblica di Muhammad Ali, che non perse l’occasione per una delle sue battute: “Presidente, lei ha commesso un grosso errore a farmi venire qui, perché ora cercherò di portarle via il posto”. Sarebbe toccato a un altro presidente, bianco e presumibilmente razzista, di invitarlo una seconda volta alla Casa Bianca, George W. Bush, nel 2005, per consegnargli la Medal of Freedom, medaglia della Libertà e chiamarlo il più grande pugile di tutti i tempi.

Secondo i medici, il Parkinson era una conseguenza di tutti i colpi presi nella sua ormai lunga carriera. Secondo la moglie, Lonnie, la colpa è stata dei pesticidi e altre sostanze chimiche tossiche che erano impiegate nel terreno, 5 ettari, che circonda il campo di addestramento che il pugile fece costruire nel 1972 in cima a un monte a Deer Lake, in Pennsylvania. Lì si allenava prima dei grandi match: c’erano 18 case, tutte in legno, per lui, la sua famiglia, gli sparring partner, gli amici. Lo vendette nel 1997. Oggi è un bed and breaksfast, in vendita per mezzo milione di dollari.

Indebolito e malato, Muhammad Alì, si ritirò dal ring ma non dalla vita pubblica, anche se al Parkinson si aggiunse la stenosi spinale, con effetti sempre più invalidanti: alla sua vita si ispirarono libri, documentari, film.

Passava però la maggior parte del suo tempo nella casa di Paradise Valley, in Arizona, guardando film western e vecchi show tv in bianco e nero. Usciva solo per sessioni di fisioterapia, andare al cinema o a concerti. Raramente concedeva interviste perch non gli piaceva più il suo aspetto in foto o in video.

Amava però la folla adorante, ha detto la moglie: “Anche se era ormai vulnerabile in misura che non poteva controllare, non ha mai perso la sua innocenza da bambino, la sua natura solare, positiva. Barzellette, battute, scherzi e trucchi. Voleva intrattenere la gente, voleva rendere tutti felici”.

Gestione cookie