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Conte schiera Dio nella Juventus, il bacio all’acqua santa e bianconera

di admin |18 Ottobre 2011 14:38

Antonio Conte (Lapresse)

TORINO – Dio al week-end  gioca a pallone? E in quale squadra gioca o almeno per chi tifa? E soprattutto, Dio, quello cattolico visto che il campionato è quello italiano, è in un’ampolla di acquasanta? Ce lo si chiede osservando il gesto antichissimo di un homo novus del calcio italiano, Antonio Conte, che all’inizio del secondo tempo di Chievo-Juventus, sullo 0-0, ha estratto dalla tasca una boccetta di acqua benedetta (immaginiamo) e si è esibito in un rituale che prevedeva un bacio finale della boccetta. La Juventus, la squadra che Conte allena da qualche mese e che è prima dopo sette giornate in serie A, non ha vinto poi con il Chievo, ma non ha neanche perso, grazie a un salvataggio sulla linea di porta del suo capitano Alex Del Piero.

La domanda non è se Dio sta dalla parte di Conte e dello schema 4-2-4 con cui manda in campo i suoi undici bianconeri. La domanda è se Conte è più caro agli Dei che non a Dio. E già, perché l’ampolla odora di paganesimo, anzi di superstizione più che di fede, cristiana o pagana che sia. C’è la superstizione politico-animista del dio Po, c’è quella di quel meridione che Carmelo Bene chiamava “il Sud del Sud del Sud dei santi”, delle statue portate in processione, del sangue di San Gennaro e delle stimmati di Padre Pio. Superstizione in veste di religione che si attacca a oggetti e immaginette “sacre”, sopravvissuto nella pancia della balena bianca cattolica, di quella Chiesa Romana che bruciava le streghe ma non strozzava la superstizione popolare, facendola sfogare sui Santi (geniale trovata pubblicitaria).

Così si arriva all’ampolla di Conte, erede in queste pratiche di quell’altro allenatore “gobbo”, cioè juventino, e arcitaliano che risponde al nome di Giovanni Trapattoni, noto evangelista del “catenaccio” e delle aspersioni propiziatorie di acqua santa. Ma i campi di calcio hanno visto anche una scaramanzia laica, che si riconosceva nel loden che il “rosso” toscanaccio Renzo Ulivieri indossava a ogni partita del suo Bologna, da settembre fino a giugno e ai caldi tropicali delle trasferte al sud.

Dello stesso Conte si conoscono pratiche superstiziose che non coinvolgono affatto Dio né gli Dei: se vince in trasferta in una città poi l’anno dopo sceglie lo stesso albergo, a Bari cenava con Matarrese tutti i giovedì, a Siena si vedeva ogni venerdì con le stesse persone. Lui e tanti come lui, fra occhio, malocchio e acqua santa, portano nel pallone turbo capitalista di oggi residui del paganesimo magico di ieri. E non sono i soli: ad ogni ingresso in campo la maggioranza dei giocatori si “segnano” con il segno della croce. Si raccomandano a chi tutto può contro gli infortuni e contro il fuori gioco, chiamano Dio a guidare e aggiustare il loro piede e la parabola della palla. Non è chiaro se Dio sia abbonato a Sky ma il mondo del calcio, allenatori e calciatori, è sicuro: Dio di partite non se ne perde una e ogni squadra con devozione idealmente, ma non tanto idealmente, sulla maglietta si scrive: “Dio gioca con noi”.

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