Eraldo Pizzo, “il più grande giocatore di pallanuoto di sempre”, 86 anni a Recco con passione, bellissima intervista raccolta da Corrado Zunino per Repubblica: “Ho vinto 16 scudetti, stavo in acqua 12 ore al giorno, ma non ho mai visto una palanca”.
L’intervista è ambientata a Recco, alla Gelateria Da Vitto, che sta per Vittorio. Il più grande pallanotista italiano di tutti i tempi si concede un caffè sul lungomare dove ha costruito una vita di insuperabili successi e umane avventure. Siamo dentro la Riviera di Levante, 130 chilometri dai quartieri orientali di Genova fino a La Spezia.
Recco, appunto, peraltro conosciuta per la ricetta della focaccia al formaggio. “Lì a destra abbiamo costruito il primo molo. Un’idea del commercialista Antonio Ferro, diventato sindaco nel 1965.
Il molo era necessario per dare una terraferma all’arbitro per le partite che si disputavano in mare. Prima gli incontri si dirigevano da una barca, il direttore di gara vedeva poco e rischiava di finire in acqua. Cosa che succedeva spesso da Recco a Pra, dovunque si giovava in mere, davanti alla spiaggia. Senza molo, non potevi accedere al massimo campionato.
Racconta Pizzo: “Io, avevo quindici anni, prendevo le pietre in spiaggia, mi immergevo e le buttavo dentro le gabbie in ferro delle fondamenta. In mare, se non era estate, resistevi al massimo un quarto d’ora. Abbiamo iniziato i lavori nella primavera del ‘58, terminato a ottobre”.
Partiamo dall’inizio, la parte più bella di ogni storia è sempre il suo avvio.
“Mio padre era di Recco, la mamma di Genova. Si sono trasferiti nel 1938 in Via Teglia, a Rivarolo, quartiere operaio del capoluogo. Sono nato lì. C’era la fabbrica San Giorgio.
“La San Giorgio già produceva armi, in particolare siluri. Nel dopoguerra si convertirà: lavatrici e frigoriferi, roba resistente. Nel ’43 siamo scappati da Rivarolo, i partigiani ci volevano fare del male. Bastava alzarsi la mattina e scoprire una “X” sulla porta ed eri finito.
Mio padre era un moderato di destra, non certo un fascista. Operaio specializzato, pensava solo ai quattro figli da sfamare, poi diventati cinque. Siamo fuggiti a Camogli, da mio nonno, guardiano delle Officine elettriche Pisoni, poi siamo rientrati nella nostra Recco”.
Durante la guerra Recco “subì ventisette raid dagli alleati, il primo il 10 novembre 1943. Ventidue bombardieri inglesi, un’esagerazione. A Recco non c’era contraerea, solo un ponte ferroviario, come a Sori, come a Bogliasco. Eppure Winston Churchill si concentrò qui. Dal mare la flotta inglese scaricava gragnuole di proiettili e rase al suolo il comune. Lo vede, più di metà l’hanno rifatto nel Dopoguerra. Faceva quattromila abitanti, oggi sono il doppio”.
“A 13 anni ho esordito con i ragazzi della Pro Recco, società ricostruita nel 1946 dalle ceneri della Rari Nantes Enotria, fondata nel ‘13. Ero più alto della media, un adolescente robusto. E avevo un galleggiamento speciale. Sarebbe stata la mia forza”.
Cos’era la pallanuoto, a Recco, nell’immediato Dopoguerra?
“Era l’alternativa al calcio, che si giocava al campo di San Rocco. Era mio fratello, che militava in Serie B. Era mia madre che mi realizzava il costume, un triangolino di stoffa, due buchi per lato, una stringa. Eravamo molto sobri, per necessità. Non ho mai avuto un asciugamano, per dire. E stavo in mare dalle 8 di mattino alle 9 di sera”.
E la società Pro Recco?
“Otto cabine di legno, la sede. Il primo campo di pallanuoto era in mare, lo delimitava una corda con i sugheri annodati ogni mezzo metro. Le porte erano tre pezzi d legno con una rete, pali e traversa. La nostra squadra giocava nel secondo campionato, diciamo la Serie B. Molte società liguri sono rinate tra il ’50 e il ’52. La Mameli di Voltri e la Sampierdarenese, a Ponente. Di qua il Camogli. In quegli anni era in Serie A e vinceva. Cinque scudetti. Fuori, ricordo l’Olona di Milano, il ministero degli Esteri a Roma, il Giglio Bianco di Bari, il Cus Catania”.
“Un giorno un gruppo di ragazzi, tutti amici, vedono un camion parcheggiato, portano via le gomme e le rivendono. Invece di usare quei pochi soldi per un paio di scarpe o del cibo, comperano i natelli di sughero, le corde e i legni per le porte. Volevano un campo da pallanuoto vero. Avevano il desiderio, la necessità, di fare sport. Così è nata la Pro Recco, nel 1946”.
Quando arriva il tempo di Eraldo Pizzo?
“Nel 1952, e sono trascorsi solo sei anni, il Recco è promosso in serie A, ma mancava, come le dicevo, il molo per l’arbitro. Così ha dovuto rifare il secondo campionato, e lo ha vinto ancora”.
Poi arrivò il commendator Ferro.
“Tonitto era un amante dello sport, ed ebbe il colpo di genio. Comprese le potenzialità, anche sociali, di quel gioco. Tutto il paese partecipò alla costruzione del Molo di Punta Sant’Anna, la domenica si passava a dare una mano, le impastatrici venivano appoggiate sulla battigia. In cinque mesi l’abbiamo costruito, quando le cose si fanno in comunità tutto diventa più semplice”.
“Esordisco in Serie A a 15 anni e sono subito capocannoniere del torneo. Non mi dica con quanti gol, vorrei saperlo anch’io. In quella pallanuoto pionieristica non esistevano statistiche. Ricordo con me Angelo Maraschi e Nino Andreani, il portiere, fu lui ad affibbiarmi il soprannome di Caimano. Diceva che ero un alligatore con gli occhi a pelo d’acqua pronto ad attaccare. Si giocava solo d’estate, con un vecchio pallone di cuoio che subito s’inzuppava. La pallanuoto era una cosa così a Recco, naturale”.
A scuola?
“Non ho mai avuto la passione, sono arrivato fino alla seconda media. Vivevo per la palla in mare, lì tutto mi veniva facile. Avevo 17 anni quando l’allenatore della Nazionale, Mario Majoni, scrisse un libro sulla tecnica di base e mi mise in copertina: aveva visto il futuro campione”.
Consiglio sempre di fare uno sport di squadra. E’ bello vincere con i compagni, scoprire nuovi fratelli per cinque anni, per la vita. Io mi vedo ancora con Gianni De Magistris, il centroboa della grande Florentia, e Romeo Collina, compagno di scudetto al Bogliasco”.
“Un fratello e una sorella più grandi, una sorella e un fratello più piccoli. Io in mezzo. Piero è stato il mio faro, e giocava piuttosto bene. Io pesavo sopra gli 80 chili, lui era mingherlino.
Aveva un carattere fumino e nel 1958 si è rovinato la vita. Siamo alla finale del campionato italiano, a Torino: tre squadre con noi, Canottieri Napoli, Camogli e Lazio. Girone all’italiana, inventato a campionato in corso quando si scopre che siamo i più forti. Gli arbitri ci tartassano tutte e tre le partite.
Eravamo contro il Camogli, il derby. All’ennesino fischio al contrario, Piero esce dall’acqua e dà un pugno all’arbitro. Viene squalificato a vita. Il nostro portiere, Roberto D’Alessandro, prese due anni. Diventerà sindaco di Portofino e presidente del Porto di Genova. Dino Repetto sarà allontanato per una stagione”.
Piero non si arrese.
“Aveva un carattere speciale e tutta la furia che avrebbe voluto mettere in vasca la trasferì al suo nuovo ruolo, allenatore. Devo dire che mio fratello ha cambiato la pallanuoto. Buttò dentro i giovani, sei su sette erano di Recco. Solo Eugenio Merello, il portiere, veniva da Genova.
Siamo nell’estate 1959, io ho poco più di vent’anni, due titolari diciotto. L’allenatore venticinque. Il quarto posto dell’anno prima ce l’abbiamo ancora nel gozzo e Piero decide di sfruttare al massimo la nostra età ed energia: chiede alla squadra una grande mobilità, ai sette in vasca di spostarsi continuamente.
Sorprendiamo gli avversari, abituati a una pallanuoto statica con il pallone che gira. In finale vinciamo tutte e tre le partite, sul filo: 6-4, 6-5, 5-4. Con la Canottieri Napoli c’era Fritz Dennerlein, anche lui pallanotista e nuotatore, uomo taciturno e intelligente. Da allenatore inventerà la zona, e spingerà ancora più avanti la disciplina”.
Due agosto del ‘59, la vittoria indimenticabile.
“A Trieste. Mio fratello Piero era diventato un coach duro, serio, impegnato. Sapeva come guidare noi ragazzi e gran parte del successo si deve alla sua impostazione del lavoro.
La Canottieri Napoli era favorita, l’abbiamo battuta. Da Recco erano venuti sessanta tifosi in Vespa, e non c’era autostrada allora. Avevano lo scudetto già cucito sulla bandiera”.
Perché in un paese di quattromila persone nasce una squadra che cementerà una storia sportiva mondiale?
“Non c’è una spiegazione: un gruppo di campioni è nato nello stesso paese nello spazio di quattro anni, è un fatto”.
Come ci si spostava per le gare?
“In treno, e lì diventavi fratello. Con Franco Lavoratori, un fuoriclasse, Rosario Parmegiani e Dante Rossi ci dividevamo il pranzo preparato dalle mamme: una torta di riso, la pasta con le melanzane. E’ un piacere raccontare quei momenti, di quegli anni siamo rimasti in tre”.
I suoi? Felici che viveva in acqua?
“Non mi hanno incentivato né proibito: mio padre mi chiedeva solo di aiutarlo in officina, poi avrebbe aperto un ristorante. Per molto tempo ho fatto una vita da bestia. Smettevo di lavorare alle 20,50, alle 21 iniziavo a giocare a Punta Sant’Anna. Finita la partita, di nuovo al ristorante, fino alle tre, le quattro del mattino. Ristorante Pizzo, qui dietro. Tutta la pallanuoto ci veniva, giornalisti sportivi compresi”.
L’apice arriva presto, a 22 anni: oro alle Olimpiadi di Roma, 1960, i Giochi più belli di sempre.
“Ricordo gli atleti tutti insieme a mensa. Cassius Clay, 18 anni, alto e magro. Wilma Rudolph, Pietro D’Inzeo, Nino Benvenuti. Tredici medaglie d’oro per l’Italia.
Livio Berruti batterà i neri sui duecento piani due ore prima della nostra finale. Ricordo le portate di quei pranzi. Un ben di Dio, e il fantasma della guerra era un ricordo fresco. Gli atleti dell’Est avevano ancora fame. Tavolate da trenta metri, solo il filetto andava ordinato prima”.
La sera della finale? Con l’Ungheria?
“Sedicimila persone tutte per noi allo Stadio del nuoto, manca il fiato solo a tornarci con la mente. Eravamo già medaglia d’oro, l’Urss aveva battuto la Jugoslavia e noi avevamo fatto un tifo infernale sugli spalti. C’eravamo svuotati. Con l’Ungheria finisce 3-3, non potevamo perdere con quel pubblico. Pareggiammo su rigore, con l’amico Parmegiani. La felicità. E più bello vincere quando non sei favorito”.
Si apre la stagione d’oro della pallanuoto italiana, uno sport molto ligure con énclave di eccellenza a Napoli e Firenze.
“Con la Pro Recco vinciamo quattro titoli di fila, dal ‘59 al ‘62, e poi altri nove dal ‘64 al ‘72. Non ci fermava nessuno”.
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