Da soldati a paraolimpici, i veterani che gareggiano a Vancouver giocano sempre nella stessa squadra: l’America e restano in divisa, si mettono sull’attenti per l’inno, si addestrano, solo che competono invece di combattere. Il portabandiera del gruppo Usa agli ultimi Giochi paraolimpici è un concentrato di patriottismo e un esempio per tutti quelli che come lui tornano dalla guerra mutilati e hanno il coraggio di fare finta di niente. Sono loro a dirlo e a volerlo, pretendono normalità e quotidianità e lo sport rispecchia quella che hanno lasciato e stoicamente ricostruito proprio come gli arti che hanno perso, rimpiazzati da fibre in carbonio e protesi ed eroismo.
Heath Calhoun, il portabandiera in Canada, è un soldato per linea ereditaria: il nonno decorato della Seconda guerra mondiale, il padre militare in Vietnam e lui predestinato. Nel 1999 si è arruolato: Airbone division 101, storica unità d’assalto aereo diventata famosa per la battaglia in Normandia nel 1944 e trasferita in Iraq ai giorni nostri. Heath e il suo convoglio sono stati attaccati il 21 maggio 2005 e lui ancora oggi recita a memoria la consegna della missione: «Sedere sul sedile posteriore e stare con gli occhi aperti fino a destinazione», solo che stare con gli occhi aperti non aiuta quando vieni colpito da una granata. «Ho visto la mia gamba spappolata e ho subito pensato che quel momento non avrebbe condizionato la mia vita. Ho urlato “chiamate il quartier generale” e sono svenuto».
Si è svegliato senza gambe, amputate all’altezza del ginocchio e senza un amico, il ragazzo seduto accanto a lui è morto e lui porta il suo nome inciso sopra un braccialetto. Si tiene addosso, sul polso destro, il dramma a cui è scampato, c’è pure la data come se fosse un giorno da ricordare, come se quel tributo a chi non c’è più facesse parte della sua forza. Sono bastati nove mesi di riabilitazione per rinascere, «ho imparato a usare le protesi e ci sono riuscito, ma potevo tenerle per poco, poi mi davano problemi e ho deciso che mi serviva altro per essere soddisfatto».
Si è arruolato di nuovo, nella «Warrior Transition Unit», un progetto speciale che gli Stati Uniti hanno messo su per aiutare i reduci mutilati e trasformarli in atleti. Reclutano, trovano ragazzi in cerca di una nuova missione e li allenano.
Il programma funziona, i veterani alle Paralimpiadi sono in costante aumento, cinque americani in questi Giochi, uno ogni sette convocati previsti a Londra 2012. Le altre nazioni imitano, il Canada ha varato da poco l’esperimento «Soldier On», a metà tra il sostegno e la preparazione sportiva e la Gran Bretagna ha da tempo scelto la stessa via. Andrew Soule è uno sponsor perfetto: a Vancouver ha vinto un bronzo nel biathlon. Ha 29 anni, ha lasciato le sue gambe in Afghanistan quando un’esplosione gliele ha tranciate, però si è tenuto il fucile e ora scia, spara, vince.
Dopo l’agguato lo hanno ricoverato in Texas, «lì ho capito che avevo due possibilità: passare i giorni a chiedermi “Perché a me?” o andare avanti». Sul podio nessuna lacrima: «Competere a questi livelli richiede concentrazione, dedizione, devi essere al meglio e non hai tempo per i se e i ma e i come poteva andare. Io rappresento l’America, qui in Canada c’è il mondo e ho vinto un bronzo per il mio Paese. Sono felice e non ho voglia di sprecare tempo a guardare indietro».
Quando erano sotto le armi portavano i capelli corti, neanche un filo di barba, impeccabili. Oggi si concedono ciuffi ribelli e qualcuno sceglie di allontanarsi dall’immagine che aveva, di segnare un prima e un dopo in un’esistenza che comunque non ha cambiato binario. Patrick McDonald si fa chiamare teddy boy, «un po’ datata come definizione, ma non mi dispiace». È nella squadra di curling slittino, gioca con gli occhiali da sole, ha due orecchini per lobo, si colora le unghie di porpora. Si diverte: «il curling è un mondo di pazzi, quelli come me ci stanno benissimo».
Non è chiaro chi siano quelli come lui, un uomo nato nel 1967, militare per passione, diversamente abile per caso perché non è stata la guerra a decidere. Era in Corea quando è successo e lì avevano smesso di sparare da un pezzo, persino lui aveva finito il suo servizio, rientrava da un pattugliamento ed era pronto al rimpatrio quando il blindato che guidava si è ribaltato. Ha smesso di camminare, «ma ancora servo la bandiera ed è un orgoglio immenso».
Chris Devlin-Young ha vinto un oro a Torino, sci slittino, ed è alla sua quarta Paralimpiade «un veterano anche qui, ormai». Lavorava come scorta alla Guardia costiera, in Alaska, e il suo aereo è venuto giù: gambe completamente paralizzate, bacino parzialmente immobile, «da allora passo le ore a pensare come fare quello che in molti dicono non posso fare più: ho vinto un oro sugli sci, niente male per uno che doveva stare fermo».
Nel tempo libero disegna prototipi per carrozzine avveniristiche: «Sportive e no, mi concentro su materiali e forme per renderci la vita più facile». Quest’anno è arrivato secondo al Super G di categoria al Sestriere, «pare che non mi venga voglia di smettere». Come Sean Halsted, altro atleta senza gambe. È caduto da un elicottero durante una ricognizione e ha scelto lo sci nordico: «Perché è pazzesco l’attimo in cui sembra di essere senza gravità». Ed è pazzesca l’idea che un ragazzo precipitato nel vuoto voglia riprodurre le stesse condizione all’infinito. Forse è un modo per riprendere il potere su un destino andato storto, per decidere dove e quando invece di subire una fatalità.