Loris Capirossi: “Dopo Sic ho scoperto la paura di morire in pista”

Loris Capirossi: "Dopo Sic ho scoperto la paura di morire in pista"
Loris Capirossi: “Dopo Sic ho scoperto la paura di morire in pista”

ROMA – Loris Capirossi da pilota del motomondiale a commissario della sicurezza. Una vita passata in sella a correre veloce per poi passare a bordo pista, a controllare che tutto vada bene. L’ex campione si racconta in un libro, “65 – La mia vita senza paura“, e racconta anche l’esperienza in Ducati, dove “mi hanno trattato come spazzatura”. Un ricordo va poi al Sic, Marco Simoncelli, che gli ha fatto scoprire una parte di sé: la paura di correre e di poter morire.

Massimo Calandri lo ha intervista per Repubblica e racconta, ora che il suo libro autobiografico “65, La mia vita senza paura” scritto con Simone Sarasso è uscito, la sua vita e i 22 anni di motomondiale che lo hanno visto tre volte campione del mondo. Capirossi parla della moglie Ingrid:

“Era bellissima e non sapeva neanche chi fossi, mentre io credevo di essere uno famoso. L’ho affrontata con la stessa timidezza – mi succede solo con le donne, accidenti – e la mia vita è cambiata. Mia moglie, la madre di mio figlio. È con lei, che mi fa forza mentre sto per scoppiare a piangere, che ho voluto cominciare questo libro”.

E aneddoti della sua carriera, come quella volta che ospitò un giovanissimo pilota poi “diventato” Valentino Rossi:

“Come quel giorno che a Brno feci dormire nel mio camper un biondino: non sapeva dove andare, diceva che ero il suo idolo. Che tenerezza. Al mattino sono uscito per fare il warm up, lui ronfava. Era Valentino, un anno dopo avrebbe esordito in 125”.

La sua delusione più grande però è arrivata con la Ducati, che lo trattò come spazzatura:

“Mi trattarono come spazzatura, cibo scaduto. Ma presi una grande rivincita a Motegi. Il tempo ha dimostrato che Stoner era l’unico a saper guidare la 800cc”.

 

Un dolore per lui la morte di Marco Simoncelli, il Sic, che ha perso la vita durante una gara:

“Se ne è andato, come sarebbe successo a Romboni. Ho chiesto di poter correre col suo numero – il 58 – l’ultima gara a Valencia. Ho scoperto una parte di me che non conoscevo: ho avuto paura di correre, di morire. La gara più difficile della mia vita”.

Una nuova vita dopo quella da pilota, stavolta a bordo pista per la sicurezza dei piloti in MotoGp e un figlio di 10 anni che lo accompagna:

“Ma voglio che odi le corse. L’ho fatto salire che aveva 3 anni e mezzo, per fortuna si è già stancato. Mi vedeva tornare a casa tutto scorticato, lo associava al pericolo. Meglio se studia”.

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