Il Giornale dedica un lungo articolo di Nicola Porro, accompagnato da un editoriale del direttore Vittorio Feltri alla causa civile con la quale Angelo Rizzoli jr., nipote del fondatore della omonima casa editrice, vuole farsi indennizzare dei danni a suo dire subiti per essere stato estromesso, a suo dire in modo malvagio, dalla proprietà dell’azienda un quarto di secolo fa.
Per questo Rizzoli chiede 650 milioni di euro di risarcimento.
Rizzoli ha deciso di passare all’azione dopo avere chiuso tutte le sue vicende giudiziarie penali, a causa delle quali, nel 1984 venne anche arrestato e tenuto in carcere 13 mesi, con una sentenza definitiva della Cassazione del 2009: i reati per i quali fu condannato a 7 anni e 6 mesi di galera e che erano tali quando furono commessi negli anni prima del 1982 (secondo l’accusa Rizzoli aveva occultato, dissipato e comunque distratto dalla loro destinazione alla gestione societaria beni sociali e, in particolare, somme per un ammontare complessivo di 85 miliardi e 236 milioni di lire circa e 3.150.000 dollari Usa» e aveva inoltre «esposto fraudolentemente, nelle comunicazioni sociali e, in specie, nei bilanci dal 1976 al 1982 fatti non rispondenti al vero sulle condizioni economiche della società») avevano progressivamente cessato di esistere, non perché fosse risultato che non erano stati commessi, ma grazie alla intervenuta prescrizione per il falso in bilancio e per la riforma delle procedure concorsuali (norme fallimentari) del 2006. La suprema Corte ne ha dovuto tenere conto.
Qualunque cosa abbia fatto Rizzoli, oggi, come si direbbe al bar, la sua fedina penale è pulita e lui ha deciso di chiedere conto di quel che secondo lui gli fu fatto per metterlo fuori della proprietà della casa editrice fondata da suo nonno. La tesi di Rizzoli è che la società venne portata al fallimento non per colpa sua e che i soldi che la dovevano ricapitalizzare vennero deviati nelle tasche di Licio Gelli (gran maestro della loggia P2), Umberto Ortolani (tramite fra la P2 e i Rizzoli) e Bruno Tassan Din, per un certo periodo onnipotente direttore generale della Rizzoli stessa, dotato di un conto in Irlanda. La Rizzoli finì in amministrazione controllata e Angelo, che all’epoca aveva appena trent’anni, fu costretto a vendere le sue azioni per appena nove miliardi di lire.
Con grande coraggio, combattendo una terribile malattia come la sclerosi multipla, Angelo Rizzoli ha ricominciato da capo la sua strada, partendo quasi da zero. Partito da una situazione di quasi onnipotenza (nel piccolo stagno della politica italiana) era precipitato nell’umiliazione del carcere e dell’abbandono di tanti opportunisti e aveva potuto contare sulla lealtà e l’aiuto di pochi, tra i quali Silvio Berlusconi. Oggi la seconda moglie di Rizzoli, Melania, è deputato del Pdl e Angelo e consorte sono così intimi della famiglia Berlusconi da potere pubblicamente intervenire nelle vicende che hanno tormentato l’estate di Silvio, della quasi ex moglie Veronica e dei loro figli.
Ora Angelo Rizzoli vorrebbe tornare in possesso dell’azienda o, più ragionevolmente, ricevere un congruo conguaglio tra il prezzo pagatogli allora e il valore di oggi.
La richiesta probabilmente agiterà più di un sonno, anche alla luce della sentenza del tribunale di Milano che ha riconosciuto alla Cir di Carlo De Benedetti un indennizzo di 750 milioni di euro da parte della Fininvest di Silvio Berlusconi. Ci sono differenze tra le condizioni processuali di Rizzoli e De Benedetti che sembrano dare svantaggiato Rizzoli, ma se il tribunale di Milano giudica con coerenza forte è il rischio che qualcuno dia ragione ad Angelone, suo nomignolo ricordato da Wikipedia.
L’articolo del Giornale è molto interessante e documentato. Avendo però lo scopo di dimostrare che nessuno su questa terra è senza peccato e che gli Agnelli, Gianni in testa, lo sono solo di nome, mentre di fatto sono più peccatori e ovviamente lupi del suo datore di lavoro Berlusconi, articolo di Porro e fondo di Feltri dimenticano quel che Feltri dovrebbe invece ricordare bene: l’arroganza non solo di Tassan Din ma di Rizzoli: certo il potere e i soldi danno alla testa e la giovane età non faceva da ammortizzatore, ma c’è chi ricorda ancora direttori, dirigenti e quadri giornalistici e aziendali convocati a Venezia per ammirare le performance cinematrografiche e le pregevoli forme, via celluloide, della attrice Eleonora Giorgi, allora signora Rizzoli. Erano i tempi degli attacchi alla Fiat commissionati da Tassan Din attraverso il direttore Franco Di Bella, compiuti a freddo e con cinismo da giornalisti all’epoca di sinistra anche estrema, placati solo dopo un viaggio a Canossa proprio di Agnelli a promettere un congruo aumento della pubblicità Fiat.
L’articolo non approfondisce forse molto anche il fatto che i conti del Corriere erano da tempo in profondo rosso (se no perché i Crespi avrebbero dovuto fare entrare Agnelli e Moratti) certo per colpa dei sindacati ma anche di una gestione dissennata e debole nei loro confronti da parte di un management che non ha mai voluto, allora come oggi, lo scontro. Da parte di Agnelli l’entrata nel Corriere, nel 1972 fu soprattutto un atto di solidarietà tra ricchi amici d’infanzia e rischiò di perdere tutti i suoi soldi se il suo plenipotenziario nell’editoria Giovanni Giovannini non fosse riuscito ad aggregare la Fiat alla vendita di Crespi e Moratti ai Rizzoli. Agnelli aveva deciso di entrare nel Corriere sulla base di alcuni numeri schizzati a biro su un foglio di carta da bozze dall’ex cronista Giovannini: rimase poi esterrefatto leggendo i rapporti disperati che gli inviava Lorenzo Jorio, mandato di gran carriera a presidiare via Solferino per conto della Fiat.
Per ironia del caso, a leggere la cronaca di Porro, la stesso giovanile entusiasmo e la stessa amarezza del giorno dopo furono provati anche da Andrea Rizzoli, padre di Angelo, quando decise l’acquisto e quando scoprì il dissesto.