Dopo oltre 400 anni è arrivato il processo d’appello per Beatrice Cenci, la giovanissima nobile romana condannata a morte per aver fatto uccidere il padre violento e sodomita, Francesco Cenci. Dal 1599, quando Beatrice venne decapitata, ancora adolescente, a oggi le leggi sono cambiate. E quindi, per il suo delitto, a quale pena sarebbe stata condannata secondo le leggi attuali? Precisamente a 15 anni di reclusione, da scontarsi in convento.
Questa è la conclusione alla quale sono arrivati i giudici di questo processo “virtuale”, durante uno spettacolo teatrale messo in scena sul sagrato della Basilica di Santa Maria di Petrella Salto a Rieti, dalla compagnia del Teatro Rigodon, con testo di Guido Bossa e regia di Alessandro Cavoli.
I giudici hanno mostrato clemenza proprio per la vita di Beatrice, sottoposta sin da piccola alle violenze del padre, un uomo violento, anche condannato per sodomia, portata quindi a un sentimento di esasperazione, condiviso dai suoi familiari che con lei architettarono la morte del conte Francesco. Cenci venne ucciso nel 1598 nel castello di Petrella Salto, in provincia di Rieti, nell’alto Lazio, dove aveva rinchiuso l’intera famiglia.
Il “processo” si è svolto con la partecipazione degli avvocati Attilio Ferri ed Elena Leonardi nel ruolo rispettivamente dell’accusa e della difesa, del giudice Angelo Picchioni come presidente della giuria popolare.
Picchioni ha spiegato che nel processo si è tenuto conto del contesto in cui è maturato il delitto: “E’ stato valutato il clima familiare di Beatrice Cenci, fatto di violenze, sofferenze e provocazioni. La storia racconta che sia stata chiusa dal padre in un castello, in realtà si trattava di una rocca con uno spazio ristretto”.
Picchioni racconta di avere studiato i documenti processuali dell’epoca per ricostruire e giudicare la vicenda, “ma attualizzando i fatti alle leggi del 2010. Abbiamo deciso che la pena di 15 anni fosse da scontare in convento perchè, in base alle testimonianze di alcune paesane, Beatrice aveva detto che avrebbe preferito la vita in un monastero piuttosto che subire le vessazioni paterne”. Il caso è stato paragonato dal giudice Picchioni alla vicenda di Annamaria Franzoni, condannata per aver ucciso il figlio: anche a lei sono state riconosciute le attenuanti generiche. La Franzoni sta oggi scontando una pena simile a quella di Beatrice, 16 anni. “In entrambi i casi, con un buon comportamento, le due donne otterrebbero la libertà condizionale dopo aver scontato metà pena”.
Beatrice era una nobildonna romana figlia del conte Francesco Cenci, erede di una ricca famiglia nobile romana. Ancor oggi il nome è ricordato da una piazza e da un palazzo, fra il Tevere e il Ghetto. Cenci era uomo dal carattere piuttosto violento. Alla morte della madre, Ersilia Santacroce, venne mandata in convento con una sorella.
Ritornata in famiglia, a 15 anni, trovò un ambiente difficile, costretta a subire le angherie (e forse anche abusi sessuali, anche se durante il processo Beatrice non ammise mai questo particolare) del padre che poco dopo, nel 1593, sposò in seconde nozze la vedova Lucrezia Petroni.
Successivamente il padre decise di segregare la famiglia nel castello Petrella Salto, dove poi lui stesso si trasferì, ormai malato di gotta, per sfuggire alle richieste dei numerosi creditori.
La moglie Lucrezia, i figli Beatrice, Giacomo e Bernardo, decisero così di ucciderlo, stanchi di subire le continue violenze. Lo stordirono con l’oppio, poi lo fecero aggredire a morte da un maniscalco e da un castellano, che si disse Beatrice avesse anche sedotto per portarlo dalla sua parte. Poi il cadavere fu buttato in un dirupo, inscenando un incidente. Dopo l’omicidio la famiglia fece rientro a Roma, nella residenza di famiglia, palazzo Cenci, appunto, vicino al Ghetto.
La notizia della morte di Francesco Cenci arrivò fino a Roma e anche papa Clemente VIII, che era a corto di denaro e al quale i beni dei Cenci facevano gola, intervenne nella vicenda e così gli assassini, invece di cavarsela con una multa come accadeva ai nobili in quei tempi, si trovarono dentro un’inchiesta vera. Poiché la Chiesa non poteva condannare a morte qualcuno che non fosse reo confesso, altrimenti la sua anima sarebbe stata esclusa dal perdono eterno, per ottenere la loro confessione i Cenci vennero sottoposti alla tortura, anche la povera Beatrice e la matrigna. A loro fu riservato il tormento della corda. Non sarebbe stato possibile, per persone del loro censo, senza il “motu proprio” del pontefice, che autorizzò il tormento il 5 agosto.
Durante il processo venne portata come prova l’analisi del cadavere del conte Francesco fatta dai medici: le ferite erano incompatibili con una caduta accidentale e tutto riconduceva a un omicidio. Il processo ebbe una grande eco a Roma, e Beatrice divenne un’icona popolare nell’immaginario collettivo. In carcere pregava in continuazione e per i romani non era un’assassina, ma si era solo difesa dalla violenza continua e gratuita del padre-padrone.
Tuttavia, Beatrice, con il fratello Giacomo e la matrigna Lucrezia Petroni, vennero condannati a morte. Solo il fratello Bernardo venne risparmiato, perchè era ancora un adolescente: lo mandarono a Civitavecchia, a remare per il resto dei suoi giorni sulle galere pontificie.
L’esecuzione avvenne davanti a castel Sant’Angelo, alla presenza di centinaia di persone accorse per vedere Beatrice: si dice che tra loro ci fosse anche il pittore Caravaggio. Beatrice e Lucrezia vennero fatte sdraiare su una panca e decapitate, Giacomo Cenci fu decapitato e poi il cadavere squartato dal tiro di quattro cavalli. La salma di Beatrice venne poi tumulata a San Pietro in Montorio, vicino all’altare maggiore, sotto una lapide anonima, come avveniva per i condannati a morte.
Ma la fama di Beatrice divenne immortale, come testimoniano i tanti pittori che le hanno dedicato un ritratto nel corso dei secoli. Anche lo stesso Caravaggio, che forse fu testimone degli ultimi istanti di vita di Beatrice.