ROMA – Il grave attentato a Bengasi in cui ha perso la vita l’ambasciatore americano in Libia J. Christopher Stevens, insieme a tre funzionari dell’ambasciata, è un brusco ritorno alla realtà. La fine delle operazioni della campagna di Libia e la scomparsa dalle cronache dei giornali della situazione interna, induceva a pensare a una graduale ma irreversibile pacificazione. La sensazione è che le conseguenze del conflitto militare e della deposizione eterodiretta del despota Gheddafi siano un capitolo tutto da scrivere: l’effimera fioritura della primavera araba è stata solo un’illusione?
Intanto, si ripropone un tema capitale nei rapporti con l’Occidente tra i tanti Islam che demoliscono l’idea, occidentale, di monolite oscurantista. In questo caso l’attentato rinforza purtroppo il pregiudizio. Un piccolo film, le cui immagini circolano in rete, finanziato da alcuni copti residenti negli Stati Uniti e realizzato da un ebreo-americano, ha offeso i fedeli musulmani, è blasfemo e intollerante. Questo secondo i salafiti, l’ala più integralista che vorrebbe un mondo fermo all’epoca della predicazione maomettana. Salafiti al Cairo hanno manifestato il giorno dell’anniversario dell’11 settembre monopolizzando la protesta di migliaia di egiziani davanti all’ambasciata Usa rimuovendo la bandiera americana per sostituirla con un’insegna islamica. Salafiti a Bengasi si sono spinti fino all’attentato e all’eliminazione fisica dell’ambasciatore.
“L’innocenza dei musulmani”, invero non un capolavoro dell’arte filmica, è stato girato da Sam Bacile, promotore immobiliare israeliano/statunitense. Nel film sono contenute immagini riferibili a scene intime tra il Profeta e sua moglie. Lo stesso regista ha affermato pubblicamente, in un’intervista al Wall Street Journal che “l’Islam è un cancro”. Oltraggio alla religione contro libertà d’espressione, si ripropone l’alternativa, spesso fatale, tra due interessi in cui è difficilissimo decidere quale debba essere prevalente. Tornano alla mente, non solo la famosissima fatwa di Khomeini lanciata contro i versetti satanici di Salman Rushdie, ma anche le vignette danesi accusate di blasfemia (senza contare la solidarietà citazionista dell’allora ministro Calderoli che improvvidamente indossò delle magliette che provocarono a Tripoli l’assalto al consolato italiano e la brutale repressione con decine di morti). E poi l’assassinio in Olanda del regista Theo Van Gogh, ammazzato per un film e il fallito attentato alla deputata di origine somala Ayaan Hirsi Ali cui si doveva il racconto.
Dall’antico divieto a rappresentare l’immagine del Profeta, alla furia iconoclasta dei talebani che fecero saltare in aria i Buddha di Bamiyan, fino allo sfruttamento a fini terroristici di veri o presunti oltraggi all’Islam quali pretesti per condurre attività terroristiche, resta il problema della gestione iconografica di un conflitto ora latente ora elevato a scontro di civiltà. E infatti, autentica o falsa che sia la motivazione, siti qaeddisti libisi si sono affrettati a rivendicare l’attentato quale rappresaglia all’annuncio dell’eliminazione del numero due dell’organizzazione Abu Al-Libbi.
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